09/09/2011
Paul Arpaia
Paul Arpaia è docente universitario alla
Indiana University of Pennsylvania,
dove insegna Storia europea, ma ha
studiato in Italia, alla Normale di Pisa. È sposato
con un’italiana e conosce i più nascosti
risvolti della nostra società. È membro
dell’associazione americana September 11th
Families for Peaceful Tomorrows (Famiglie
dell’11 settembre per un futuro di pace,
www.peacefultomorrows.org) che da dieci
anni cerca di lanciare messaggi di non violenza
rispetto al tema delle guerre. Ha perso nel
crollo delle Torri gemelle una cugina, Kathy
Mazza, comandante della scuola di formazione
della Port Authority police di New York e
New Jersey. A Kabul, dove sono arrivato con
la delegazione degli Enti locali per la pace, ci
incontriamo in un hotel blindato come se
fosse una base militare.
Come nasce Peaceful Tomorrows e la tua
adesione all’associazione?
«Non mi sono associato nel 2001 poiché
ho avuto, subito dopo l’11 settembre, l’esigenza
di isolarmi e cercare strade alternative
ai riti mediatici delle foto degli scomparsi
nelle Torri, dei mazzi di fiori nelle strade vicine
agli edifici, del continuo ricordo dei pompieri
e dei poliziotti morti. Molte famiglie delle
vittime volevano fortemente la guerra
mentre io avevo bisogno di una strada che
non avesse la vendetta come
obiettivo».
Le fotografie delle vittime dell'11 settembre al Tribute Wtc visitor center di New York.
Come hai vissuto la giornata
dell’11 settembre?
«Ero in università quando alcuni
studenti mi avvisarono
dell’attentato. Ci siamo immediatamente
organizzati per raccogliere
sangue per i feriti e
mentre mi recavo a New York,
avevo la speranza di potere
sentire le sirene delle ambulanze
quale testimonianza del
fatto che molte persone erano ancora in vita.
Non immaginavo la tragedia che avrei dovuto
affrontare poco dopo. Ero tranquillo anche
per mia cugina, dirigente della polizia,
che lavorava nello staff del sindaco Giuliani.
Continuavo però a mandarle degli Sms senza
avere risposta. Pensavo fosse nel bunker dove
stavano organizzando le operazioni di soccorso.
Kathy si trovava, invece, sotto le Torri:
forte di un’esperienza medica di oltre
vent’anni, aveva deciso di entrare ad aiutare
chi era in difficoltà. È morta mentre soccorreva
una donna che non poteva camminare.
Mi piace ricordarla così».
La vostra associazione ha scelto di andare
contro il messaggio prevalente in America:
che difficoltà avete incontrato?
«Abbiamo avuto, anche in America, molte
adesioni da associazioni pacifiste e singoli cittadini
che riconoscevano la possibilità di
un’azione diversa da quella militare. Nei
giorni successivi all’11 settembre sono arrivati
a Peaceful Tomorrows moltissimi messaggi
di solidarietà da parte di cittadini afghani,
iraniani, iracheni e di Paesi cosiddetti del
“terrore”. Il messaggio che il Governo continuava
a trasmettere era quello di fare la guerra
subito e anche alcune famiglie delle vittime
si schierarono su questa linea. Furono
momenti difficili, in cui alcuni di noi vennero
persino accusati di non amare i parenti
scomparsi. Ho sempre pensato che la morte di quelle migliaia di persone all’interno delle
Torri sia stata molto usata per costruire carriere
politiche o giustificare l’entrata in guerra.
Preferisco pensare al dolore che molte altre
famiglie nel mondo provano per i propri
cari senza che nessun reportage televisivo ricordi
le loro storie. Anche per questo è importante
il lavoro di formazione e informazione
che ancora facciamo nelle scuole».
Afghani in preghiera per la fine del Ramadan davanti a una moschea di Kabul.
Quando e perché hai deciso di venire a Kabul
in questo anniversario?
«È stata una decisione improvvisa anche se
poi più si avvicinava la data della partenza
più speravo in qualche intoppo che mi permettesse
di rinviare. In realtà ho trovato una
città bellissima, ricca di umanità. È come se
anche mia cugina, con la sua grande attenzione
ai più deboli, mi accompagnasse in ogni
giorno della mia presenza in Afghanistan».
Sei riuscito a perdonare dopo l’attentato
dell’11 settembre?
«L’odio è un sentimento che non mi appartiene,
e non sono tra quelli che hanno festeggiato
l’uccisione di Osama Bin Laden. Non sono
io a dover perdonare. Credo che spetti a
Dio, che sia cattolico, musulmano o di qualsiasi
religione, il dovere di perdonare».
Andrea Ferrari