Otranto, un dolore da ricordare

E' di 14 anni fa la "Strage del Venerdì Santo": 108 albanesi morirono nel naufragio della Kater I Rades. Familiari e Comune di Otranto vogliono trasformare il relitto in un monumento.

07/08/2011
La scialuppa Kater I Rades in un'immagine d'epoca.
La scialuppa Kater I Rades in un'immagine d'epoca.

I primi, pigiati come sardine e penzolanti dai rottami arrugginiti della mercantile Vlora, arrivarono nel porto di Bari l’8 agosto 1991. Fuggivano dalla crisi economica e dalla fame del loro Paese, l’Albania. Sognavano l’Italia che dagli schermi della televisione appariva l’eldorado, lontano solo qualche braccio di mare. Un mare terribilmente infido, però. Gli ultimi, quando nei Balcani esplose una nuova crisi innescata da migliaia di risparmiatori truffati da finanziarie inaffidabili, s’imbarcarono a Valona il 28 marzo del ’97. La Kater I Rades – questo il nome della scialuppa – ne imbarcò tanti, troppi. Erano soprattutto donne e bambini. Per quella traversata non dovette pagare nessuno. Sperare, almeno per una volta, era gratis.

Immigrati in fuga dall'Albania.
Immigrati in fuga dall'Albania.


La Strage del Venerdì Santo

Superata l’isola che segna il confine del mare albanese, il barcone venne però affiancato da cinque navi della Marina militare italiana e seguito per diverse ore nell’intento di allontanarlo. Il trattato firmato da Italia e Albania non prevedeva distinzioni, su quali procedure attuare in caso di attraversamenti non autorizzati nel Canale d’Otranto. Una delle corvette, la Sibilla, si avvicinò troppo al punto da toccare la Kater è provocarne l’affondamento. Così, almeno, hanno stabilito le due sentenze di primo e secondo grado della Corte d’Assise di Lecce che il 28 giugno scorso dopo 14 anni di battaglie giudiziarie a suon di perizie e controperizie e in base alle testimonianze dei (pochi) superstiti ha condannato il comandante della nave italiana, Fabrizio Laudadio, a 2 anni e 4 mesi e quello della motovedetta albanese, Xhaferi Namik, a 3 anni e 10 mesi per omicidio colposo plurimo e naufragio colposo. Le persone che erano sul ponte precipitarono in mare. Solo alcune, 34 per l’esattezza, si salvarono. Chi era nella stiva colò a picco insieme alla nave. Alla fine, la “Strage del Venerdì Santo”, come venne subito ribattezzata, provocò la morte di 108 albanesi. 69 cadaveri vennero recuperati quando il relitto, adagiato sul fondale a 790 metri di profondità, fu portato alla luce e trasportato nel porto di Brindisi. 39 corpi non sono stati mai restituiti alle famiglie aggiungendosi al grande esercito di morti senza nome sepolto nei fondali del Canale d’Otranto. Nel mare che uccide l’aritmetica delle vittime diventa spesso un esercizio postumo di crudeltà e violenza. Nella sentenza d’appello, i magistrati leccesi hanno disposto che il relitto della morte venga rottamato ora che il processo si è definitivamente concluso e una verità è stata stabilita. Ma i familiari delle vittime non ci stanno, chiedono che quel che resta di quella scialuppa non venga distrutto ma recuperato come monumento a ricordo di tutte le vittime delle stragi del mare. Una lotta, la loro, contro l’indifferenza.

Il naufragio a Lampedusa del maggio 2011.
Il naufragio a Lampedusa del maggio 2011.


«Reagire moralmente e politicamente»

Di recente, dopo il naufragio che al largo di Lampedusa ha provocato la morte di oltre 150 tunisini in fuga dal loro Paese, lo scrittore Claudio Magris ha inviato una lettera al Corriere della Sera per denunciare come le stragi del mare non facciano notizia e non commuovano più: «Le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un’eccezione sia pur frequente, bensì una regola», ha scritto Magris, «diventano quindi una cronaca consueta, cui si è fatto il callo, che quasi ci si attende già prima di aprire il giornale e che dunque non scandalizza e non turba più, non desta più emozioni collettive. Questa assuefazione che conduce all’indifferenza è certo inquietante e accresce l’incolmabile distanza tra chi soffre o muore, in quell’attimo sempre solo, come quei fuggiaschi inghiottiti dai gorghi, e gli altri, tutti o quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono essere troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo». Allo scrittore ha risposto il Presidente della Repubblica: «Di fronte alla tragedia dei tanti migranti inghiottiti dal mare», ha affermato Giorgio Napolitano, «l’indifferenza è un rischio da scongiurare e per questo occorre reagire moralmente e politicamente».

Il relitto della Kater I Rades.
Il relitto della Kater I Rades.


Un monumento per tutte le vittime

È quello che concretamente stanno cercando di fare i familiari delle vittime, l’associazione Integra Onlus e il Comune di Otranto che hanno avviato un progetto comune perché la “Strage del Venerdì Santo” non finisca nell’oblio attraverso il recupero della Kater I Rades. «Abbiamo deciso di fermare la demolizione disposta dai giudici e accollarci le spese per riportare il relitto da Brindisi ad Otranto», spiega il sindaco Luciano Cariddi, «dopodiché cercheremo di coinvolgere in un progetto comune le associazioni, alcuni artisti, il governo albanese e ovviamente i familiari delle vittime per realizzare un monumento che ricordi non solo la tragedia del ’97 ma tutte le disgrazie che hanno reso il Canale d’Otranto un cimitero a cielo aperto per migliaia di persone, non solo profughi. Ho già scritto una lettera al presidente della Biennale dei giovani artisti del Mediterraneo che ha offerto la sua piena disponibilità. Ovviamente, saranno recuperate solo alcune parti della nave». In prima fila nella battaglia c’è la presidente e fondatrice di Integra Onlus, Klodiana Cuka, albanese: «Abbattere il relitto», ha scritto in una lettera al sindaco di Otranto, «corrisponde ad una doppia uccisione della memoria collettiva di un popolo». Cariddi ha risposto positivamente. C’è poca retorica, sempre in agguato in circostanze simili, nella sua riflessione: «La memoria è un dovere umano e civile soprattutto per una città come la nostra, avamposto per chi arriva dai Balcani e che è stata candidata a ricevere il Nobel per la Pace per l’accoglienza offerta alle centinaia di disperati giunti qui negli anni Novanta», spiega il primo cittadino, «il nostro compito non è quello di regolarizzare i flussi o fissare le politiche sull’immigrazione. Questo spetta al governo. A noi tocca il compito della primissima accoglienza, di offrire un abbraccio, del calore umano a chi, pur di sognare un futuro migliore, si mette nelle mani di gente senza scrupoli. Per questo ritengo che Otranto debba ospitare un monumento a ricordo di tutte le vittime del mare». Un pugno all’indifferenza e all’assuefazione anche in nome dei migranti morti nei mesi scorsi al largo di Lampedusa, stessa classe sociale, stesso destino. Compagni di viaggio e di desideri i cui corpi, irriconoscibili, giacciono ora nel fondo del Mediterraneo.

Antonio Sanfrancesco
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