23/09/2011
“A questo punto non sono sicuro di sapere cosa dire”. Sono parole di Anderson Cooper, anchorman di punta della CNN dopo aver annunciato al termine di una diretta-fiume l’esecuzione di Troy Davis, condannato a morte dallo stato della Georgia per l’omicidio di un poliziotto 22 anni fa.
Da qualche anno, Cooper accorre sul luogo di ogni catastrofe umana o naturale che sia, restando in onda per ore con un contegno e un controllo straordinari. Eppure, in questo caso, la “morte in diretta”, ha zittito anche lui.
Si’ perche’ la morte, programmata, per legge, ha qualcosa di agghiacciante che, per quanto orribile, la morte “normale” non ha. Purtroppo, pero’ la maggioranza degli americani non sembra pensarla cosi’.
In realta’ il dibattito nazionale scaturito dal caso Davis, espresso ieri sera da centinaia di manifestanti – pro e contro - davanti al carcere di Jackson, Georgia e alla sede della corte Suprema di Washington, riguarda si’ l’opportunita’ della pena capitale ma solo nei casi in cui viene messa in dubbio la colpevolezza dell’individuo.
Davis si e’ sempre dichiarato innocente, anche nell’ultima dichiarazione, prima dell’iniezione letale. Dei nove testimoni che lo inchiodarono, sette, negli anni, hanno ritrattato, accusando la polizia locale ansiosa di trovare un colpevole di aver estorto loro dichiarazioni incriminanti. Tre sospensioni della condanna negli ultimi tre anni hanno contribuito, almeno nell’opinione pubblica ad alimentare I dubbi. E non da ultimo, il fatto che Davis fosse nero, e bianco il poliziotto ucciso ha appesantito il caso con tinte razziali, presenti da sempre nel dibattito sulla pena capitale negli USA.
Di fatto pero’, in linea di principio la pena di morte in America continua a non venir messa granche’ in discussione. Il Washington Post ricorda giustamente che l’indice di gradimento per la pena capitale e’ maggiore di quello per il presidente Obama – dichiratosi tra l’altro favorevole anche lui. Il 60% di americani la approva (contro appena il 40% di 40 anni fa) e solo il 20% vi si oppone in ogni caso. Solo dieci stati su cinquanta l’hanno abolita formalmente dai codici, cinque l’hanno abolita di fatto, e ben 35 la prevedono ancora – applicandola in alcuni casi, come in Texas, senza troppi complimenti. Non e’ un caso che Rick Perry candidato repubblicano alla presidenza, in testa nei sondaggi, si sia vantato in un recente dibattito televisivo di aver firmato in qualita’ di governatore di quello Stato piu’ di 230 sentenze, ricevendo dalla platea un applauso scrosciante.
E in un anno elettorale come quello che sta per iniziare quegli applausi pesano molto di piu’ delle lamentele internazionali – vengano esse dal Papa, dall’Unione Europea o da Amnesty International. Poco importa agli americani, e soprattutto ai politici a caccia dei loro voti, che il loro Paese sia stato l’anno scorso al quinto posto nel mondo per numero di “omicidi di stato” dopo la Cina, e tre di quelli che George W Bush chiamava “Stati Canaglia”, ovvero Iran, Corea del Nord e Yemen.
Se il dibattito sul caso Davis fosse davvero incentrato su questioni di principio, magari si sarebbero accorti che appena quattro ore prima, sempre in Texas veniva giustiziato Lawrence Russel Brewer, neonazista condannato per aver ucciso , tredici anni fa, un afroamericano incatenandolo al suo camioncino e trascinandolo per tre miglia fino a decapitarlo. In quel caso non c’erano dubbi, ne’ sulla colpevolezza ne’ tantomeno sull’efferatezza del crimine. E infatti, come volevasi dimostrare, del “caso Brewer” non e’ fregato assolutamente niente a nessuno!
Stefano Salimbeni