02/03/2012
L'arrivo della nave "Genova" a Ushuaia, in Argentina, nella Terra del Fuoco con i "seicento" di Bologna: gli operai dell'imprenditore Carlo Borsari e le famiglie (archivio Franco Borsari).
C'era una volta il dopoguerra. In quegli anni, i doganieri di mezzo mondo
furono testimoni più o meno consapevoli del tragico fenomeno
dell'emigrazione di centinaia di migliaia di italiani. Furono numerosi gli
orfani del Piano Marshall. Quelli che dagli americani al massimo avevano
ricevuto una stecca di cioccolato nei giorni della Liberazione. Quelli che
avevano perso tutto, pure le vere nuziali, donate alla patria per fondere
cannoni. Cosí come già era accaduto agli inizi del Novecento e dopo la
Grande Guerra, moltissimi connazionali si giocavano le carte del futuro
puntando la posta sull'"altrove".
Ci fu chi fece le valigie da solo, ci fu
chi si portò moglie e figli al seguito e ci fu una persona che, oltre
alla
famiglia, portò con sé tutti gli operai della propria ditta. E il
parroco
del paese. E i macchinari, per non perdere tempo e cominciare subito a
lavorare. E la maestra elementare perché i bambini non fossero troppo
spaesati nell'apprendere una lingua sconosciuta in una terra lontana.
L'uomo che compí questa impresa di chiamava Carlo Borsari, veniva da
Bologna ed era proprietario di una falegnameria industriale e di una
ditta
di costruzioni. La sua storia é tracciata in alcuni ritagli di giornale
affissi alle pareti del carcere di Ushuaia, in Argentina, la città più a
sud del pianeta. Oggi quel penitenziario è un museo e raccoglie
testimonianze di storie che sarebbero piaciute a Mario Rigoni Stern, a
John Fante e a tutti gli scrittori che seppero raccontare i dolori e le
emozioni dei nostri migranti.
Ancora una foto che documenta lo sbarco nella Terra del Fuoco (archivio Franco Borsari).
Alla fine degli Anni Quaranta, il governo
di
Buenos Aires, in base a un trattato bilaterale che privilegiava le
imprese
italiane nei lavori pubblici, invitò i nostri industriali a installarsi
nella Terra del Fuoco per incrementare lo sviluppo di quella regione
inabitata e ostile, la stessa regione descritta qualche decennio più
tardi
da Luis Sepulveda nei suoi romanzi e definita "Il mondo alla fine del
mondo". Tutto un programma. Il commendatore Borsari pose la propria
candidatura e questa venne accettata. In soli sei mesi l'industriale e i
suoi 150 operai accumularono 6.000 tonnellate di materiali:
dalle assi di legno per costruire le case, ai macchinari della fabbrica,
alle stoviglie per cucinare. Tutto fu caricato sulla nave "Genova", in
partenza dall'omonimo porto ligure. Nel marzo del 1948, si imbarcarono
in 600, i lavoratori e le loro famiglie, direzione Capo Horn.
Il sacerdote italiano con gli operai della Borsari a Ushuaia. Al centro, con il cappello: l'imprenditore Carlo Borsari (foto Franco Borsari).
Prima
del
viaggio, Carlo Borsari e consorte furono ricevuti in udienza da Papa Pio
XII. L'imprenditore si impegnò davanti al Pontefice a fornire assistenza
religiosa agli emigranti. Fu cosí che sul Genova salí anche un
sacerdote, don Antonelli, e con lui una statua della Madonna della Guardia, regalo
papale. Quando giunsero nella Terra del Fuoco, gli italiani trovarono un
luogo tremendamente inospitale, ambientarsi sarebbe stato arduo in quel
lembo di Terra di fronte all'Antartide, ma ce la fecero. Costruirono
case
prefabbricate in legno, strade, una centrale idroelettrica e lo
stabilimento per la produzione di legno compensato. Inventarono una
città
là dove c'erano solo ghiaccio e alberi piegati in due dal vento. Gli
approvvigionamenti erano difficili.
La cappella costruita a Ushuaia dagli operai italiani della Borsari, con lo sfondo delle montagne della Patagonia (archivio Franco Borsari).
Franco Borsari, figlio di Carlo,
vive
oggi a Pianoro, in provincia di Bologna e divide con noi i suoi ricordi.
"La frutta e le verdure venivano recapitate laggiù via posta aerea", rammenta. "Ai rifornimenti pensava un eroico DC3 bimotore. Le navi
non
arrivavano, il mare era troppo spesso in tempesta". Gli spostamenti su
terra non erano meno avventurosi. "Mi muovevo sempre a cavallo", ricorda
Franco. Una carta della Terra del Fuoco stampata all'epoca dal National
Geographic, annovera fra i toponimi proprio l'"Empresa Borsari",
testimonianza di come la colonia di bolognesi segnò la storia della
regione in maniera indelebile. Anche padre Agostini, il celebre
salesiano
che esplorò lo stretto di Magellano, fu in contatto con Carlo Borsari.
La carta del National Geographic: al centro, cerchiata in rosso, la "Empresa Borsari", vicino al canale Beagle (archivio Franco Borsari).
I
bolognesi di Ushuaia s'ingegnavano per far rivivere in terra straniera
un po' di Italia. "Le donne preparavano tagliatelle e ravioli", racconta
Franco."Un giorno trovammo un pinguino ferito. Una famiglia lo adottò,
lo
mise nel pollaio con le galline. Scoprimmo che era ghiotto di
tagliatelle". Anche i pinguini patagonici scoprirono dunque le delizie
emiliane. Franco Borsari sorride al ricordo di certi aneddoti. Tra le
memorie custodite gelosamente, conserva ancora molte lettere inviate a
suo
padre dagli operai, missive che domandavano perlopiù la possibilità del
ricongiungimento familliare. Su ognuno di quei fogli, spesso scritti con
una calligrafia incerta, c'é uno spaccato del nostro Paese a quel tempo:
la fuga dalla miseria, il sollievo per l'opportunità di lavoro ricevuta,
la nostalgia del Paese e dei cari.
Un giornale dell'epoca che racconta l'incredibile avventura dei "Seicento" (archivio Franco Borsari).
È un'Italia che commuove e fa
riflettere. A ricordare quell'avventura oggi, a Ushuaia, rimane la
sconsacrata "cappella degli Italiani", costruita nel tempo libero dagli
operai della Borsari. E poi rimane il figlio del medico del villaggio.
Che
si chiama Carlo, in omaggio al bolognese che arrivò qui coi suoi
"seicento".
Fu Carlo Henninger ad accogliere nel 2003 Franco Borsari al minuscolo
aeroporto di Ushuaia, dopo tanti anni che il figlio dell'imprenditore
non tornava più laggiù. "È diventato uno dei miei amici più cari", confida
Borsari. "La mamma di Carlo é friulana, la incontrai a Ushuaia nel 2003.
Mi si avvicinò e mi ricordò l'epoca in cui lei era stata profuga in un
campo austriaco. Quando, senza alcun avere, tornò in Italia, a Bologna
incontrò mia madre. Nel vederla cosí abbandonata a sé stessa, mia madre
le
regalò una copertina per il suo bambino, temendo che avesse freddo".
Un giornale sportivo dell'epoca (archivio Franco Borsari).
Poi
la giovane friulana si imbarcò col marito, allora medico dell'impresa, a
bordo del "Genova". "Quando torni a Bologna, porta un fiore sulla tomba
di
tua mamma", raccomandò la signora Henninger a Franco Borsari. E quel
fiore, Franco, ce lo ha portato davvero e lo rinnova ogni settimana.
Quel
fiore é lí a ricordare quell'Italia di generazioni di profughi e di
emigranti di cui spesso ci si dimentica, soprattutto quando altri
profughi
e altri emigranti, arrivati da altre latitudini, bussano alla nostra
porta.
Eva Morletto