24/06/2011
Il reparto femminile del carcere di Rebibbia, a Roma.
Per capire quanto sia vitale l’investimento sulla formazione in carcere, basta osservare il gruppo di 50 detenute di "Rebibbia Femminile" ricevere, nella cerimonia di chiusura, l’attestato del corso per Badanti organizzato dall'Istituto Nazionale Malattie della Povertà-San Gallicano. Riunite nel giardino del noto penitenziario romano, con il vestito migliore, rilasciano commenti tra la soddisfazione e la commozione in un’atmosfera di festa che fa dire a Silvana, una zingara italiana, «sembra un matrimonio gitano». Il progetto di formazione di medicina essenziale e assistenza per disabili e anziani, è l’ultimo di una lunga serie che la direzione ha voluto promuovere, dopo quello di addestramento cani per ciechi o di esecuzione di patchwork, e che mostra con chiarezza la strada imboccata da reggenza e servizi sociali del carcere. «La direzione - spiega la Dott.ssa Ida Del Grosso, vice direttrice di Rebibbia Femminile - cerca di attuare il principio costituzionale secondo cui la pena ha una funzione rieducativa e risocializzante. Noi ci crediamo fermamente e riteniamo che la cultura, a questo scopo, possa giocare un ruolo determinante».
Un carcere femminile a Cuba, nella capitale L'Avana.
"Rebibbia femminile", con 380 detenute, è il carcere per donne più grande d’Italia. Più della metà sono straniere: Europa dell’Est, nord e centro Africa, centro e sud America e, una minoranza, Asia. Negli altri penitenziari italiani, dei circa 68.000 detenuti, gli stranieri sono quasi il 40%. Se il carcere fosse l’immagine oggettiva dell’Italia, quindi, circa 4 cittadini su 10 sarebbero stranieri. Molto più dei dati reali che vedono gli immigrati presenti sul territorio nazionale, tra regolari e irregolari, attestarsi su una percentuale del 9%. Insomma, il primo sguardo sull’universo carcerario, fa sorgere molti più dubbi sull’equità del sistema giudiziario, che sulla tendenza a delinquere degli stranieri. Le possibilità di finire in carcere e rimanerci per gli immigrati, sono semplicemente molto più alte per motivi primariamente economici, politici e sociali, prima che giudiziali. E poi c’è il reato di clandestinità che oltre a creare imbarazzi internazionali, ha fin qui ingrossato le fila degli stranieri reclusi e ingolfato un sistema residenziale al collasso.
Un'altra immagine di carcere femminile: qui siamo a Tuscaloosa, in Alabama, Stati Uniti.
«Qui va bene - dice Michela una donna italiana sulla quarantina che studia per prendere il diploma all’Istituto d’Arte - al massimo siamo in cinque in cella e soprattutto ci sono molte occasioni per migliorarsi dal punto di vista culturale. Io vengo da Pozzuoli, in celle da 7 ci stavamo in 14. Ma poi, nessuna proposta formativa, neanche un corso. Il carcere come pena e detenzione soltanto, concentramento». Il problema del sovraffollamento, svela molte contraddizioni. Come sostiene Sant’Egidio nel suo “Rapporto sulla Povertà a Roma e nel Lazio”, il numero dei detenuti è cresciuto in maniera direttamente proporzionale a quello dei reati punibili col carcere e inversamente al ricorso alle misure alternative. Inoltre, si legge sempre nello stesso rapporto con un certo stupore, se da una parte vi sono carceri che scoppiano, dall’altra esistono penitenziari semi-vuoti o mai aperti. A Rieti, ad esempio, si utilizzano solo 97 dei 306 posti regolamentari. Desolante il panorama nel resto dell’Italia. A Cropani (Catanzaro), ci vive solo il custode, l’enorme penitenziario di Gela è stato inaugurato due volte ma resta totalmente inutilizzato. E poi Bovino e Orsana in Puglia, Busaschi in Sardegna, una lista davvero lunga. Per completare il quadro, non si può omettere che il 50% della popolazione reclusa è in attesa di processo e che il 30% risulterà innocente al termine dei processi.
Alcune detenute nel "Rebibbia femminile", che con 380 detenute è il carcere per donne più grande d’Italia.
«Ho sbagliato - confessa Catia, una signora romana - ed è giusto che sconti il mio errore. Ciò che mi dà forza e mi fa resistere è il pensiero dei miei figli, uno maggiorenne e l’altro di 12 anni. Sono la mia speranza». Ma anche la preoccupazione maggiore. Oltre l’80% delle donne di Rebibbia - ma la percentuale è simile nel resto d’Italia - sono mamme e se un uomo sa che nella maggior parte dei casi a prendersi cura dei figli vi sono mogli, madri o sorelle, per una donna, è diverso. «Sono separata - riprende Catia - e ho tanta paura per i miei figli. Mi dà una mano mia madre col piccolo, ma non è facile. Allora, la sera, guardo il cielo e parlo con Dio, chiedo a lui di proteggere loro innanzitutto».
Fede, problemi quotidiani, salute, cultura, lavoro, povertà, sfruttamento. Vita vera. Si parla di questo con le donne che attendono di prendere l’attestato di badanti, tra un pasticcino e un caffè. E si resta colpiti, tra le tantissime cose, di quanto attraverso il corso sia emersa una sensibilità non comune verso chi è svantaggiato nel corpo e nella mente. «Le lezioni sono state per me - dice orgogliosa Rosaline, una nigeriana - l’occasione di imparare un lavoro che mi piacerebbe molto fare. Mi sento molto vicina a disabili e a chi ha problemi mentali». Ester, peruviana, aggiunge che «a casa mi occupavo di mia nonna ed ero felice di rendermi utile a lei che non camminava».
«Legga i commenti che tutte le donne hanno lasciato al termine del corso - mi consiglia la Dott.ssa Concetta Mirisola, Commissario Straordinario dell’INMP San Gallicano, al termine della cerimonia - troverà volontà di riscatto e desiderio di essere socialmente utili». Al di là degli apprezzamenti per il corso - con una frequenza pari al 100% delle alunne - si scoprono frasi di vicinanza per handicappati, anziani, malati e la speranza di essere di servizio a queste categorie una volta fuori. «Quello della detenuta cattiva è solo uno stereotipo - la vice-direttrice Del Grosso - . La maggior parte di queste donne, ha subito violenze di ogni tipo e sa cosa significhi sofferenza. Non voglio certo giustificarle. Voglio solo dire che dal male devono riemergere quelle energie positive che tantissime di loro hanno».
Chiuso dietro di noi il grosso portone del carcere, restano sensazioni forti. I pregiudizi vacillano pericolosamente. A farli definitivamente crollare, ci pensa Ana, una giovane romena che incontriamo per un’intervista al San Gallicano. Durante i sei mesi di reclusione scontati a Rebibbia, ha frequentato il corso per badanti. Da marzo è fuori e da un mese lavora come assistente a casa di una signora che vive nelle vicinanze di San Pietro. «Credo che questo sia un lavoro adatto a me - afferma raggiante -. A me piace molto aiutare, in più, ho una laurea in farmacia (e una in economia n. d.r.). Mi occupo di una donna in grande difficoltà con pazienza e dedizione. Ho un impiego, un tetto. Conserverò tutto ciò con tutta me stessa. E dalla Romania riuscirò a far venire al più presto mia figlia».
Luca Attanasio