Tra i fantasmi di Ponte Galeria

Clandestini, siamo entrati nel Centro di identificazione ed espulsione alle porte di Roma (di Ahmad Gianpiero Vincenzo)

15/07/2010
La delegazione con cui siamo entrati a Ponte Galeria
La delegazione con cui siamo entrati a Ponte Galeria

I paradossi del Centro identificazione ed espulsione di Ponte Galeria partono da lontano. Il Galeria è un fiume antico che lambisce per 35 chilometri la Capitale. Prende vita dalle alture del Trionfale e si getta nel Tevere poco prima di Fiumicino. Era molto noto in passato: gli etruschi lo usavano per portare il sale fin sotto le mura dell'antica Veio. Oggi il Galeria nessuno lo vede più, perché scorre chiuso tra argini poderosi. In compenso è il fiume più inquinato e velenoso d'Italia.

Anche gli  immigrati che finiscono dietro le mura del CIE non li vede più nessuno. Sono chiusi da argini di cemento. Scompaiono alla vista e in un certo senso anche alla vita. In compenso trascorrono il tempo in uno dei posti peggiori d'Italia.

Tecnicamente non sono detenuti. La loro colpa è quella di non essere in possesso di documenti. E di dover quindi essere identificati. Una procedura che con i mezzi moderni può richiedere qualche settimana, un mese al massimo. Prima del recente pacchetto sicurezza, potevano essere trattenuti per 60 giorni. Un periodo difficile, visto che il regime detentivo è più duro di quello di un carcere. Ma con il senno di poi, un periodo ancora accettabile. Con il pacchetto sicurezza, invece, i CIE si sono trasformati in un incubo lungo 6 mesi. Doloroso e inutile.

Davanti al cancello blindato c'è un maghrebino che discute con il poliziotto. Ha un amico dentro e gli vuole portare dei soldi. “Per comprare qualcosa”, dice. Sono solo pochi euro, ma immagino che  possano valere un tesoro. La guardia spiega che non può entrare. Solo madre, padre e fratelli. Sorrido amaro pensando a quanto devono essere lontani i genitori e i parenti della maggior parte di quelli che costretti a vivere  dietro le sbarre di Ponte Galeria.

Faccio parte di una delegazione parlamentare, che nel frattempo è arrivata. Quindi è un giorno speciale. Dove tutto deve filare liscio. La guardia parla al telefono e salta fuori un assistente sociale. Prende i soldi e li porta con se. Speriamo che raggiungano il destinatario, e nel frattempo entriamo.

All'ingresso tutto è in perfetto ordine. La parte antistante è riservata alle forze dell'ordine. La gestione interna del centro, invece, è di una cooperativa privata.

Le stanze per gli incontri con i magistrati e avvocati sono squallide e linde. Così come l'infermeria e il refettorio. Sembrano verniciate di fresco. Nulla lascia pensare che negli ultimi tre mesi ci sono  state almeno quattro rivolte. L'ultima il 4 giugno. Incendi, pestaggi e arresti. Più di 200.000 euro di danni. Episodi di cui si sa poco o nulla all'esterno.

Il direttore quando parla dei reclusi li chiama “ospiti”. Evito di ricordargli che è decisamente improprio quel termine. In effetti - lo ammette lui stesso – gli ospiti preferirebbero essere portati  in carcere. Perché la galera è meglio. Si possono ricevere visite. Libri. Assistenza spirituale. Addirittura un'istruzione. Nel CIE invece ci sono solo le mura di cemento macchiate dall'umidità che arriva dal Galeria. Un nulla dilatato sei interi mesi. Quando bastano poche settimane per identificare quelli che si possono identificare.

Per fortuna il viceprefetto mandato dal Viminale, a farci da guardia e da guida turistica, decide che è arrivato il momento di visitare gli “ospiti”.

I reclusi per prima cosa mostrano i loro luoghi di culto. La fede è proprio l'ultima cosa a morire. Si trovano proprio vicino all'entrata. In un locale c'è una moschea. I fedeli chiedono un aiuto. Vorrebbero una scopa per pulire. E un battitappeto. Non di quelli che servono per le stanze e le latrine, ma solo per la moschea, per pulire quei quattro stracci messi per terra. Il direttore promette di provvedere immediatamente. Vorrebbero anche un imam della Grande Moschea. Faremo il possibile. Poi vediamo la cappella. Una stanza vuota. Le sedie e l'altare li portano quando arriva il prete. Altrimenti marcirebbe tutto. L'umidità sale lungo le narici e segna le pareti con lunghe strisce nere.

Spiegano che il Centro è costruito su di uno stagno. Un pezzo è ancora visibile, in un angolo lasciato scoperto. Ci sono resti romani. E le rane. Di quelle che gracidano tutta la notte e non possono essere eliminate. Sono una specie protetta. Quei poveretti che nemmeno possono dormire in pace, invece, non li protegge nessuno.

Arrivano altre richieste. Un uomo vorrebbe vedere la sua compagna. E suo figlio. Non sono sposati e quindi non li fanno entrare. Faceva il panettiere. Poi lo hanno preso perché senza permesso di soggiorno. Per identificarlo. Vallo a spiegare a suo figlio.

In una delle stanze, c'è un veterano. Ha scontato 26 anni di carcere. Quando è stato rilasciato, lo hanno portato al CIE per l'identificazione. Tutti quelli che escono dal carcere devono essere identificati. Una piccola disfunzione del nostro sistema penale, che condanna senza identificare. Penso ai lunghi anni di carcere. Il tempo ci sarebbe tutto, spiegano, ma non viene fatto. Quindi dopo la pena, altri sei mesi. Più duri dei precedenti.

Qualcuno mi si avvicina alle spalle. “Il mio compagno di stanza”, dice, “ha tentato tre volte il suicidio negli ultimi giorni. Lo sorvegliamo giorno e notte, ma abbiamo paura.” La maledizione di Ponte Galeria scuote l'anima delle persone.

Andiamo anche dalle donne. Sono in maggioranza nigeriane. Portate in Italia perché vendessero i loro corpi. Anche dentro al Centro cercano di apparire carine. Forse non hanno ancora capito la differenza tra la strada e il posto dove si trovano.  Una cinese sta parlando con un'assistente sociale. Forse è incinta. Le portano un vocabolario per spiegarsi. Lei chiude il libro e continua a parlare. Vedo che una componente della delegazione parlamentare vorrebbe intervenire, ma non la fanno avvicinare. Lei il cinese lo parla. “Cerca di spiegare che è analfabeta”, mi dice, “non sa leggere. Che le portano a fare un vocabolario!”.

Le donne incinta non possono essere detenute nei CIE. Così ci spiegano. Se quella donna è incinta verrà immediatamente rilasciata. Potrei giurare di aver visto anche un'altra donna con un pancione. Una donna dell'Est. Poteva essere vicina al sesto mese. Quando mi volto per avere spiegazioni, non la vedo più. È solo malata, dicono. Se non era incinta – penso - doveva avere una cirrosi epatica all'ultimo stadio. Una di quelle che ti lasciano poco tempo da vivere. Ma in fondo Ponte Galeria non è un posto per vivere. Con 42 euro al giorno che lo Stato paga ai gestori, c'è solo da sopravvivere. Malamente. E cominciamo a star male anche noi. Non vediamo l'ora di uscire.

Alla fine ci portano a vedere la mensa. Faccio in tempo a notare che le razioni sono veramente striminzite. In quel posto non c'è nemmeno bisogno di fare lo sciopero della fame. È compresa nel vitto. A quel punto, però, abbiamo una nausea tale, che anche quelle due cucchiaiate di spezzatino sarebbero troppe. Vorremmo solo uscire. Ma non dal CIE. Dall'Italia.

 

Ahmad Gianpiero Vincenzo
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