04/06/2010
Amartya Sen, Nobel per l’economia nel ’98, è nato nel Bengala (India) nel 1933. Ha insegnato a Calcutta, Cambridge, Delhi, alla London School of Economics, a Oxford e Harvard. È rettore del Trinity College a Cambridge.
«Nel mondo di oggi sono ben
pochi coloro che non possiamo
ritenere prossimi a noi».
Amartya Sen, Nobel per
l’economia a cui piace flirtare – l’espressione è
sua – con la filosofia, passerà alla storia come
colui che ha messo l’uomo al centro della materia
più fredda e “disumana”. Solo a lui poteva
venire l’intuizione tanto semplice quanto rivoluzionaria
esposta in L’idea di giustizia
(Mondadori), summa del suo pensiero: se vogliamo
arrivare a capire che cosa è giusto –
obiettivo quanto mai necessario per orientare
sia le nostre scelte individuali sia le politiche
pubbliche – è inutile che ci poniamo la domanda:
qual è la giustizia perfetta? Risulterà impossibile
giungere a una definizione condivisa.
Ha molto più senso, invece, partire dalla vita reale e concreta delle persone e delle società,
mettere a confronto le loro idee e i diversi modelli
e, attraverso una discussione basata sulla
razionalità, scegliere di volta in volta che cosa
è più giusto e che cosa è sbagliato.
«Non è necessario mettersi d’accordo su come
debba essere un mondo perfetto e ideale,
per decidere se sia preferibile il welfare degli
Stati Uniti o quello europeo: sarà più proficuo
mettere a confronto il sistema sanitario
americano, che tutela solo una parte dei cittadini,
con quello europeo, che estende l’assistenza
pubblica a tutti», spiega Sen. Non deve, quindi, sorprendere che temi
quali la povertà, la discriminazione delle donne,
l’handicap, l’istruzione ricorrano in questo
saggio: da qui, dai problemi effettivi delle
persone bisogna prendere le mosse per parlare
di giustizia.
Ad esempio, avreste mai immaginato
che fra democrazia e carestie ci fosse
una connessione? «Un Governo alle prese con
una carestia con quale faccia potrebbe presentarsi
alle elezioni? Come potrebbe sopravvivere
alle critiche, qualora non avviasse un’azione
risoluta contro la povertà? La democrazia crea
le condizioni affinché un Governo si dia da fare
per sconfiggere la fame. Al contrario, in un
regime autoritario, dove non si tengono elezioni,
non circolano informazioni e non c’è una
pressione dell’opinione pubblica, non vi è alcun
interesse né spinta ad agire».
Al Nobel indiano dobbiamo la consapevolezza
che il Pil (Prodotto interno lordo) è inadeguato
a misurare il benessere di un popolo. «Ha
una sua utilità in ambito economico, madiventa
fuorviante al di fuori: negli Usa, il Pil aumenta,
ma non diminuisce la disoccupazione, anzi.
Abbiamo bisogno di altri indicatori, che ci
dicano se le persone sono soddisfatte della
loro vita. Anni fa, fu messo a punto per l’Onu
l’Indice di sviluppo umano, con il quale si tentava
di fotografare la qualità della vita di un
Paese. Ora sto tracciando per il presidente
Sarkozy ulteriori indicatori, che fanno riferimento
alla longevità, all’educazione, alla sicurezza
sociale, alla partecipazione pubblica».
Al cuore della teoria di Sen sta l’idea che si dà
giustizia dove c’è uguaglianza di opportunità
per ogni essere umano, nel rispetto della sua libertà.
«Ridurre l’eguaglianza a una questione
di reddito è limitante. È essenziale poter scegliere
che cosa vale e avere le opportunità per realizzarlo.
Pensiamo alle famiglie dove c’è un
membro disabile, una questione largamente
trascurata: intanto diminuisce la capacità di procurarsi
reddito, sia per il disabile sia per i familiari
che dovranno accudirlo; poi, anche con un
reddito elevato, le possibilità del disabile di fare
ciò che desidera sono ridotte, perché ha bisogno
di aiuto anche solo per uscire di casa».
Alcune pagine del saggio sono dedicate alla
domanda: chi è il nostro prossimo? Secondo
Sen, la lezione della parabola del buon samaritano
è che «il nostro prossimo è colui con il
quale entriamo in relazione. E oggi, nel mondo
globalizzato, siamo in contatto con tutti».
Paolo Perazzolo