25/09/2012
Lo incontriamo all'Istituto
San Carlo di Milano, scuola prestigiosa in città, da sempre attenta alle
tecnologie. È arrivato per incontrare docenti e studenti nell'ambito di un
progetto dedicato a didattica e nuovi media. Il lavoro di Rushton Hurley, direttore
del programma Merit al Krause Center for Innovation di Palo Alto in California,
è dialogare con gli insegnanti nel mondo per aiutarli a comprendere se, come e
perché la tecnologia può facilitare il loro lavoro. Ha lavorato nella scuola per
22 anni, come docente e come preside, insegnato in Giappone e in Australia,
prima di riapprodare negli Stati Uniti da dove era partito per diventare
globetrotter com'è ora. «Da insegnante ho cominciato a chiedermi in che
cosa gli strumenti che mi venivano offerti potevano facilitarmi il lavoro, farmi
risparmiare tempo. Dopo un po' mi sono detto che quello che avevo imparato su
di me poteva servire ad altri. Per questo ho fondato Next Vista for learning,
una charity che fa consulenza alle scuole sulla tecnologia e mette in comune
una banca dati di video gratuiti realizzati dalle scuole».
E' arrivato alla conclusione
che la tecnologia aiuta a insegnare?
«Sì, ma a differenza di
quanto si crede, non servono competenze tecnologiche, se non di base, per
usarla. Gli insegnanti in tutto il mondo sanno già fare benissimo la cosa più
importante: sono capaci di formulare le domande giuste. Spesso però hanno
all'inizio nei confronti della tecnologia un po' di naturale diffidenza».
Perché?
«Si rendono conto che i loro
allievi la conoscono meglio di loro. Ed è un fatto. Marc Prensky ha coniato
l'espressione "nativi digitali": gli allievi lo sono, gli insegnanti
invece, per ragioni generazionali, sono "immigrati digitali". Questo significa che gli insegnanti hanno
costruito la loro conoscenza studiando con i metodi che fino all'ultima
generazione sono stati consolidati per secoli, e lo stesso approccio che
avevano alla conoscenza lo applicano quando si accostano alle tecnologie:
cambiano supporto ma imparano e studiano come facevano prima. È naturale. I
ragazzi, invece, che con le tecnologie
sono nati, probabilmente, imparano con approcci diversi. Armonizzare queste due
realtà è una sfida in corso che non abbiamo mai sperimentato prima. Ma le sfide
si raccolgono in positivo o in negativo a seconda di come ci si relaziona ad
esse».
Cioè?
«Vale per gli studenti e
vale per gli insegnanti: tutto dipende da come uno reagisce davanti a una cosa
difficile. Dice: "Troppo difficile, non ce la farò mai"? O
dice:"Ok, posso imparare"?. Questo fa la differenza. La sfida di noi
insegnanti, qualunque sia l'argomento che andiamo a insegnare, è ispirare i
nostri allievi a reagire nel secondo modo. Il problema è che dobbiamo farlo noi
per primi».
Sta dicendo che gli adulti
rispetto ai ragazzi in fatto di tecnologia si sentono inadeguati?
«Un po' sì, un insegnante
spesso ha paura di perdere la stima dei suoi allievi se non sa dare tutte le
risposte. Ma è assurdo: nessuno di noi è onnisciente. Invece un insegnante che
ammette di non conoscere tutto della tecnologia che il suo allievo domina
meglio, ma è curioso e interessato a capire dal suo allievo a che cosa gli
serve e perché per lui è importante, spesso, facendo le domande giuste, trova
lì il terreno comune per stabilire una relazione con i ragazzi. Quando un
insegnante capisce che un mezzo nuovo aumenta le sue potenzialità supera la
paura. Io dico spesso quando li incontro: ricordatevi che la tecnologia non fa
buoni o cattivi insegnanti, dipende da quello che ci si mette dentro, ma la
tecnologia in mano a un bravo insegnante può aumentare il suo talento».
Qual è la difficoltà
maggiore nell'insegnare in questa fase di cambiamento?
«L'aver perso dei
riferimenti: per secoli gli insegnanti hanno lavorato potendo ragionevolmente
prevedere in quale futuro tecnologico avrebbero vissuto i loro alunni, dagli
ultimi 15 anni non è più così, gli strumenti cambiano a una velocità che non
sappiamo prevedere. C'è chi ha detto, e credo sia vero, che per molto tempo
abbiamo insegnato riempiendo scatole, ora dovremo accendere fuochi. Significa
innescare curiosità, ma anche insegnare a essere versatili, a imparare molte
volte nella vita. È chiaro che accendere curiosità per il sapere è un
presupposto che non dà da solo la formazione accademica necessaria ad acquisire
un sapere specifico. Sono due aspetti diversi dell'insegnamento, ma abbiamo il
dovere di farli coesistere».
Con la tecnologia
guadagniamo delle cose, ne perdiamo altre in termini di conoscenza?
«E' inevitabile, avviene in
tutti i cambiamenti. Ma ci sono degli anticorpi. Quando ci si accorge di
perdere delle informazioni che non devono essere perse si fa in modo che con i
nuovi strumenti se ne perpetui la memoria».
C'è chi paventa il rischio
che i nativi digitali abbiano disimparato a concentrarsi è reale?
«Ci dimostrano giocando di
sapersi concentrare per ore, il problema è incanalare questa capacità verso
l'acquisizione del sapere. Stiamo al centro di un processo in corso».
Riesce a fare un esmpio
tecnogico che potrebbe funzionare?
«Bisogna essere
fantasiosi, invitare gli allievi a girare un video per esempio è un modo di
stimolare gli allievi a sviluppare abilità tradizionali con mezzi diversi:
prima di girare un video bisogna decidere che cosa si vuole dire, dargli un
contenuto organico e coerente. Bisogna conoscere bene il tema che si
vuole dare al video, bisogna dunque studiare. Bisogna dargli dei contenuti,
cioè bisogna scriverne il testo, bisogna scegliere le immagini. La preparazione
costringe gli studenti ad apprendere. Lo scopo, l'idea di produrre qualcosa che
tutti vedranno, li gratifica e li spinge a dare il meglio. Non solo, essere
innovativi e coinvolgere gli allievi significa responsabilizzarli. Dire a uno
recalcitrante "se non riesci con questo metodo prova quest'altro io so che
puoi farcela", è anche un'arma per potergli dire dopo "Io ti ho dato
un'alternativa, non aver fatto è una tua responsabilità. Per noi insegnanti
invece innovare è importante per ridare energia al nostro lavoro: se mi annoio
io nel fare una cosa è probabile che si annoino anche i miei
studenti».
Il problema della tecnologia
è un problema anche di mezzi non tutte le scuole e non tutti gli allievi hanno
a disposizione i mezzi della scuola in cui ci troviamo. Che fare?
«Il problema esiste, ma
un po' si supera, per esempio invitando gli studenti a lavorare in gruppo
attorno ai mezzi che ci sono. E dando sempre un'alternativa tradizionale per
consegnare lo stesso lavoro».
Elisa Chiari