Igor Cassina, lascio perché...

Il ginnasta fa il bilancio della sua carriera e racconta com'è immaginare un domani lontano dalla sbarra: "Alle cadute sono abituato ma stavolta sarà diverso".

10/03/2011

Alla sbarra Igor Cassina c'è stato 28 anni e ci è stato benissimo, lassù a vorticare, appeso come un funambolo attorno a uno staggio di vetroresina. Già perché il suo non è stato un processo, semmai una condanna autoinflitta: tutta colpa di una invincibile passione. Era un bambino spilungone e un po' "legato" come si dice in gergo dell'elasticità articolare che non c'è. Insomma tutto il contrario di quel che servirebbe sulla carta a un ginnasta come Dio comanda: bassa statura, articolazioni sciolte e grande forza esplosiva... Igor non aveva quasi niente di tutto questo. Però ginnasta lo è diventato lo stesso e dei migliori. Se è vero che ad Atene 2004 si è preso l'oro olimpico e una rivincita su tutti quelli che gli dicevano che più in là di tanto uno come lui non sarebbe potuto andare. E invece c'è andato, sfidando le colonne d'Ercole di un fisico inadatto, sfidandole con le sole cose che  servono  contro le Colonne d'Ercole:  coraggio al limite dell'incoscienza e una discreta dose di ostinazione.
Ora però è tempo di scendere dalla sbarra per sempre. Igor ha annunciato il proposito di ritirarsi dall'attività agonistica.
Siamo stati colti di sorpresa, non ci aspettavamo che l’annuncio di questo addio arrivasse ora.
 
Che è successo?

«Niente di speciale. Quando nel 2009 ho vinto il bronzo ai Mondiali di Londra, mi sono sentito caricato, ho pensato che quella sarebbe stata la spinta per arrivare ai Giochi di Londra del 2012. Poi però, un giorno dopo l’altro in palestra ho sentito subentrare l’appagamento, non è che non mi piaccia più quello che faccio, la ginnastica resta la mia grande passione, ma per preparare un obiettivo ad alto livello ci vogliono "gli occhi di tigre": ci vuole un altro mordente, che mi accorgo di non avere più come prima. Per questo sento che è il momento. Sono sereno. Non è stato facile, ho cominciato a 6 anni, ne ho quasi 34, la palestra è da 28 la mia vita quotidiana. Ma non si può accontentarsi di tirare avanti nella routine, un giorno dopo l'altro: occorre guardarsi dentro con onestà. Non sono saturo ma un’Olimpiade chiede di più».

Che cosa le fa sentire che quel di più è venuto meno?
«Il fatto che quando sono in palestra, mentre preparo una combinazione nuova, non sento più la stessa convinzione. Mi piace ancora sperimentare, ma non basta per vincere: per quello ci vuole cattiveria, agonistica s’intende: non deve mancare la convinzione che sei lì per l’obiettivo, per il risultato. E io ora sono sazio: ho cominciato a fare uno sport che amavo contro tutti e contro il mio fisico: nessuno avrebbe scommesso un soldo su di me. Nonostante tutto ho realizzato il mio sogno. Sono soddisfatto, ho scelto la sbarra, un attrezzo rischioso: ogni volta che la lasci potresti non riprenderla e cadere. Per certi versi è un azzardo e io ho costruito sull'azzardo i miei esercizi, sfidando le difficoltà, invece di accontentarmi di esecuzioni pulite di prove più semplici».

Fino a provare una difficoltà estrema mai portata in gara, perché queste scelte così temerarie? 
«Perché la ginnastica è anche creatività e in  pedana si va come si è. Quando ero piccolo ero un bambino tenace e molto spericolato e queste caratteristiche me le sono portate dietro: con il mio allenatore abbiamo scelto di mettere in pedana un esercizio che rendesse Igor Cassina diverso dagli altri, questa scelta ha fatto scuola, l’esercizio "il Cassina" che ha il mio nome è stato portato in gara da altri: altri hanno seguito questo modo di fare ginnastica».
Il Cassina 2 che possiamo vedere in un video allegato però in gara non l'ha mai portato?
«No, troppo rischioso e troppo poco redditizio per il codice di punteggio in vigore».

Davvero nessun rimpianto, neanche per il podio olimpico sfiorato a Pechino?
«Se tiro, tutte ma proprio tutte le somme, qualcuno piccolo c’è: ma sono convinto che sia un rimpianto che mi ha dato la possibilità di forgiare meglio il carattere, facendomi apprezzare anche di più i risultati che sono venuti e che oggi mi fanno prendere serenamente la decisione di lasciare. Pechino 2008 è stata una delle gare più importanti della mia carriera…».

Quarto all'Olimpiade vuole dire quarto al mondo: non è male in assoluto ma fa male…
«Sì, soprattutto se sei il campione olimpico in carica. Paradossalmente la mia percentuale di forma a Pechino, dove sono arrivato quarto, era migliore che ad Atene dove ho vinto. Avevo margini di riuscita in allenamento migliori che ad Atene: ero secondo in qualificazione come ad Atene, poi ho commesso un’imperfezione e l’ho pagata. Il quarto posto ha un po’ di amaro, ma mi ha messo in gioco per il 2009».

Anno di una grande delusione seguita da una grande soddisfazione…
«Grande delusione sì, agli Europei di Milano, a casa davanti a tutti gli amici che mi hanno seguito fino in capo al mondo, con il podio costruito da mio padre. Sarebbe stato bello salirci, e soprattutto sarebbe bastato che facessi la metà di quel che avevo fatto il giorno prima in qualificazione e invece... sono caduto due volte. Mi è servito di lezione però: e ai Mondiali di Londra ho vinto un'altra medaglia. Sarebbe stato peggio vincere gli Europei e cadere ai Mondiali».

Usciamo dal bilancio e guardiamo avanti, è vero che chi fa sport a questo livello vive in una bolla?
«Sì è vero. Questo momento lo penso da molto tempo, non perché avessi voglia di smettere, ma è che si cresce, gli anni passano: 25, 26, 27… ci si fa un film di come sarà, e tutte le volte ti dici: "ma sì è lontano, ci penserò". La verità è che non vuoi pensare alla realtà che c’è fuori, ti chiudi dentro la tua vita come in un rifugio. Per pensare alla ginnastica ho lasciato altre cose, a volte, ho pensato alla ginnastica in modo maniacale».

Che cosa vede nel futuro?

«Obiettivi e stimoli nuovi: ho una collaborazione della Federazione, il presidente Agabio mi ha chiesto di diventarne testimonial per promuovere i messaggi positivi dello sport e della ginnastica artistica. Farò un corso di formazione manageriale per conoscere gli aspetti del managment sportivo. Mi farebbe piacere poter aiutare altri atleti che necessitano di un supporto. La prospettiva di un ruolo tecnico mi interessa come idea, ma credo che sia opportuno aspettare un po’, saper fare non si significa necessariamente saperlo insegnare agli altri, non voglio bruciare tappe in questo senso, è qualcosa cui vorrei avvicinarmi con calma per avere il tempo di uscire dalla mentalità da atleta e capire se davvero sarei capace di passare dall’altra parte. Serve umiltà, servono un passo alla volta e una formazione adeguata».

Dopo la laurea di primo livello in Scienze Motorie in Cattolica ha lasciato gli studi?

 «No, mi sono iscritto alla specialistica».

Quanto pesa rendersi conto, nel momento in cui la bolla scoppia, che a 34 si sa fare una cosa sola che non sarà un mestiere per sempre?

«Ho deciso, perché sento che è il momento giusto, ma so che c’è il lato oscuro, il salto nel vuoto. Sono ancora in attività continuo fino alla fine del campionato italiano assoluto a squadre, non ho ancora cambiato radicalmente vita. Sarà solo quando mi scontrerò con la quotidianità senza palestra che capirò davvero il peso di questa decisione. C’è una parte di me che ha paura: questi stimoli, queste motivazioni, l’agonismo, il confronto, la possibilità di cimentarsi, non ci saranno più, non più così, in questo modo così diretto, servendosi solo di un corpo che comandi e che ti obbedisce anche dove non sembra possibile. I nuovi stimoli, i nuovi obiettivi non saranno così, sono conscio che sarà impossibile trovare le stesse gratificazioni. Ne avrò forse altre, ma non potrò più chiedere al mio corpo di dimostrare al mondo che sono il migliore. Sentiamoci tra sei mesi e forse saprò dire se la bolla è scoppiata bene oppure no».

Per allora saprà quanto dall’alto si cade?

«Son caduto tante volte, ci sono abituato: le mie botte le ho prese. Finché cadi in una buca di cubi di gomma piuma non ti fai niente, ma andare a sbattere sopra la sbarra cadendo è un’altra storia: più traumatica. Tutti i dolori che ho mi sa che vengono da lì».

Ma lo sport non era un toccasana?

«E come no? Soprattutto a questo livello: artrosi precoce alla caviglia sinistra, spalle che sono tutte un cric e crac. Lo sport d’alto livello al fisico chiede tanto, ma fa parte del gioco, è nel conto. Se avessi voluto un fisico perfettamente integro avrei fatto il fotomodello».

Magari nella prossima vita.
«Magaaari». Ride, Igor Cassina, ci scherza su, ma sa che non si sarebbe mai scelto, neanche potendo, una vita senza sbarra.

Elisa Chiari
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