07/02/2012
Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia (foto copertina: ImagoEconomica).
La clamorosa protesta del movimento dei forconi e dell’autotrasporto, iniziata il 16 gennaio, ha in pochi giorni piegato prima una regione, la Sicilia, e poi l’Italia intera. Un danno economico ingente, di cui Confagricoltura ha tentato una stima: 30 milioni di euro di mancato reddito dei lavoratori agricoli siciliani, dato calcolato sulla base del numero di giornate di lavoro perse; un aumento del 30% dell’import di prodotti agricoli dalla Spagna, di qualità spesso inferiore ma piazzati sul mercato a prezzi maggiorati; 70mila tonnellate di merce fresca diventate scarto; 2.000 giornate di cassa integrazione richieste dalle imprese siciliane dell’agroalimentare, rimaste praticamente ferme durante i giorni della protesta.
La manifestazione del 26 gennaio a Palermo ha portato nelle vie del centro città migliaia di persone ed ha saputo mettere insieme componenti sociali e politiche molto eterogenee: movimenti studenteschi, autotrasportatori, i Forconi, Forza d’Urto, pescatori e semplici cittadini. Gli slogan in piazza erano gli stessi di cui in Sicilia si parlava da mesi: la riduzione delle accise sul carburante, l’eliminazione di ICI e IMU sui fabbricati rurali e terreni, il blocco delle cartelle esattoriali e del fermo amministrativo sui mezzi di lavoro, la riduzione dei pedaggi sui traghetti per le merci siciliane da esportare al Nord.
Gli agricoltori, poi, insistono su una riforma della politica agricola della UE, col blocco delle importazioni di grano e olio e l’utilizzo dei fondi comunitari non spesi per rifinanziare le aziende. La protesta è arrivata anche sotto i palazzi della politica siciliana, Palazzo dei Normanni e Palazzo d’Orléans, sedi rispettivamente del parlamento e del governo regionali; luoghi che sono diventati il simbolo del tradimento che il popolo siciliano ha subito.
Durante la manifestazione del 26 gennaio è stato pesantemente attaccato anche il Presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello, che aveva lanciato l’allarme sulla possibile presenza della mafia nel movimento di protesta. Un allarme non privo di fondamento e condiviso anche dal ministro Cancellieri che, durante un’informativa al Senato, ha parlato di «atti intimidatori nei confronti di alcuni operatori commerciali» e di come «i mafiosi si occupavano anche del servizio d’ordine nel corso della protesta».
Lo Bello è presidente dal 2006 di Confindustria Sicilia, la prima federazione di livello regionale del sistema Confindustria, principale organizzazione nazionale rappresentativa delle imprese manifatturiere e di servizi in Italia. Tra le iniziative più innovative di Confindustria Sicilia vi è l’adozione di un codice etico (http://www.confindustriasicilia.it/associazione.asp?id=182) nel quale è specificato che «gli imprenditori associati adottano quale modello comportamentale la non sottomissione a qualunque forma di estorsione, usura o ad altre tipologie di reato poste in essere da organizzazioni criminali e/o mafiose»: una scelta di campo coraggiosa, con proposte innovative che mettono al centro il ripristino della legalità.
Abbiamo voluto approfondire con Lo Bello, che oggi vive sotto scorta, alcuni aspetti della sua denuncia e più in generale dell’atteggiamento di Confindustria verso le aziende che adottano atteggiamenti di collusione con la mafia.
- Confindustria è stata attaccata pesantemente in piazza. Tra gli altri Mariano Ferro, leader di Forza d’Urto, ha sostenuto che «la mafia non scenderebbe mai in strada. Semmai, forse, si trova già al potere». Padre Enzo Schirru, per dieci anni cappellano al carcere di Palermo, ha detto di volersi schierare «con questa gente che lotta per un pezzo di pane» perché «nelle manifestazioni non c’è mafia ma fame». Qual è il senso, alla luce anche di queste dichiarazioni, dell’allarme che Confindustria ha lanciato sulle possibili infiltrazioni mafiose all’interno del movimento di protesta?
"Dalla nascita del movimento ho sempre sostenuto che le proteste avevano radici legate a un disagio sociale ed economico molto forte in Sicilia. Ho compreso le ragioni dei manifestanti, ma mi sono sentito in dovere di lanciare l’allarme sulla presenza alle manifestazioni di esponenti legati direttamente o indirettamente a Cosa Nostra. Non volevamo assolutamente delegittimare la manifestazione, ma anzi trovare il modo di preservarla rispetto a possibili infiltrazioni di cui ci eravamo accorti fin dall’inizio. È sembrato invece che il nemico fossi io e non chi lavorava per strumentalizzare i blocchi. I fatti, però, ci hanno dato ragione, con l’arresto di un esponente mafioso a Marsala e la presenza del figlio di un importantissimo capomafia di Catania durante la conferenza stampa di presentazione delle iniziative di protesta".
- Il movimento dei Forconi presenta, nel nome stesso, un riferimento alla rabbia verso chi gestisce a vario titolo il potere. Lei ha detto che però le loro istanze sono articolate con una piattaforma datata rispetto alle necessità dell’isola…
"Da diversi anni cerchiamo di spostare, anche con buoni risultati, il mondo imprenditoriale da posizioni di retroguardia a comportamenti di forte innovazione sociale. Io sono perciò solidale con il movimento, che raccoglie istanze sociali e di malcontento e che spero possa avere un’evoluzione importante. Mi spiego: in Sicilia si è rotto un patto sociale tacito tra politica, società e mondo economico che si basava su una sostanziale distribuzione di risorse pubbliche. Risorse che però non hanno mai rappresentato investimenti economici per lo sviluppo, ma che al contrario venivano distribuite in maniera parassitaria e spesso clientelare. Oggi questo modello è finito, semplicemente perché sono terminate le risorse economiche a disposizione. Oggi bisogna sostenere un nuovo modello economico basato sulle regole, sulla crescita e sul mercato. Spero che il movimento dei Forconi non si nutra della nostalgia del passato e che capisca che è cambiato il paradigma che ha sempre caratterizzato la Sicilia. Oggi bisogna aspettarsi atteggiamenti diversi. Oggi, rispetto a situazioni di crisi economiche analoghe del passato, vi sono meno sussidi, meno risorse dal pubblico e minori incentivi. È importante costituire un fronte ampio chiedendo e lavorando intensamente per la crescita economica".
- In Sicilia in questi ultimi anni la mafia ha subito dei duri colpi, molti boss sono stati arrestati e molti beni sequestrati e restituiti alla colettività. Lei non pensa che forse vi è ancora da fare luce su quella che Giovanni Falcone definiva la «zona grigia, dove la mafia trae la sua massima forza»?
"Vi è sicuramente una vasta zona grigia in Sicilia, che non è fatta solo da chi è colluso con la mafia, ma anche da chi tace rispetto all’attività della criminalità mafiosa. Il problema del Mezzogiorno e della Sicilia non è tanto la consistenza militare o imprenditoriale della mafia, ma l’indifferenza rispetto al fenomeno: è questa la vera forza di Cosa Nostra. Molti non ne colgono la pericolosità o non comprendono che la mafia è un fattore distorsivo del mercato e che quindi brucia e non produce ricchezza. Ma l’indifferenza nasce anche da un rapporto distorto tra cittadino e Stato: nasce dall’idea, prevalente in Sicilia, che lo Stato non eroga servizi collettivi, ma individuali. Se si ritiene che i servizi siano erogati al cittadino non come diritti ma come favori, si legittima di fatto la cultura dello scambio di favori. È a smontare questi meccanismi e a ricostruire la cultura dello Stato che mira oggi l’azione di Confindustria, supportando con un patto forte la magistratura e le forze dell’ordine".
- Confindustria ha fatto una scelta molto forte in questo senso, adottando un codice etico che definisce la procedura di espulsione per le aziende che risultino chiaramente colluse con la mafia. Pochi giorni fa avete presentato i dati del 2011: 30 imprenditori espulsi dall'associazione in Sicilia, di cui 6 a Palermo. Che effetto ha avuto la vostra azione, che ovviamente ha un valore di sanzione sociale in attesa di quella giuridica?
"Parto da una considerazione: fino a qualche anno fa non vi era alcuna vergogna da parte di molti imprenditori nel pagare il pizzo o nell’avere dei rapporti con realtà mafiose. Era un comportamento considerato normale dalla maggior parte dei siciliani e del mondo imprenditoriale. Con la sanzione sociale che applichiamo ai nostri imprenditori collusi con la mafia o che si rifiutano di denunciare, noi abbiamo avuto una presa di posizione molto chiara, che è servita a cambiare aspettative e prospettive e a far emergere comportamenti legali".
- Il vostro percorso di legalità cerca anche di distinguere l’imprenditore colluso da colui che paga il pizzo, individuando un percorso che favorisca la denuncia degli estorsori…
"Vero, e abbiamo raccolto con la nostra azione risultati davvero importanti, favorendo anche l’adesione degli imprenditori a reti di legalità già esistenti: a Palermo tante associazioni lavorano in rete proprio per cercare di aiutare gli imprenditori a denunciare".
- Di recente avete sottoscritto un protocollo d'intesa tra la Polizia e gli industriali siciliani. L’obiettivo è quello di completare e rendere utilizzabili i nuovi uffici della Squadra mobile di Palermo, ospitati nella ex Chiesa di Sant'Elisabetta, restaurata per un valore di 350 mila euro. Che significato ha questo accordo?
"L’obiettivo è quello di far percepire la Questura come un’infrastruttura civile al servizio dei cittadini, in cui operano persone di grandissima professionalità. Serve a garantire la legalità a Palermo e anche a consentire che le aziende possano agire liberamente sul mercato senza condizionamenti. Investire nella Questura è come realizzare una scuola per fornire maggiore istruzione ai bambini".
- Confindustria, insieme ad altre 11 associazioni (Confartigianato, Confagricoltura, Confederazione Italiana Agricoltori, Cna Sicilia, Casartigiani, Confapi Sicilia, Confcommercio, LegaCoop, Confesercenti Sicilia, Confcooperative e Unicoop), ha inviato al Governo alcune relazioni in cui evidenzia la situazione pericolosa che si è venuta a creare in Sicilia. Avete forse il timore di una esplosione sociale del movimento e che Roma non ne abbia la percezione?
"No, io credo che il Governo sia pienamente consapevole di quello che avviene in Sicilia. Abbiamo tra l’altro molto apprezzato le dichiarazioni del Ministro dell’Interno rispetto alle denunce di infiltrazioni mafiose nei movimenti di protesta. Il nostro allarme resta comunque forte: la Sicilia rischia di essere una grande polveriera che potrebbe estendersi nel resto d’Italia, se non si tenta di impostare un nuovo paradigma e un nuovo rapporto tra Stato e cittadini. È necessario un nuovo patto sociale che guardi al futuro e non al passato".
Andrea Ferrari