Maurizio Ferraris: «Anche l'iPad ha un'anima»

Anzi, ne è una potente immagine. La tavoletta della Apple custodisce la nostra memoria, e la nostra identità. E accresce la responsabilità. Vedi le chiamate non risposte...

30/08/2010
Maurizio Ferraris è professore di Filosofia teoretica all'Università di Torino, dove dirige il Laboratorio di ontologia. Ha scritto una quarantina di libri tradotti in varie lingue. E' in uscita il suo "Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida"  (Bompiani).
Maurizio Ferraris è professore di Filosofia teoretica all'Università di Torino, dove dirige il Laboratorio di ontologia. Ha scritto una quarantina di libri tradotti in varie lingue. E' in uscita il suo "Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida" (Bompiani).

Che c’azzecca l’anima con l’iPad? Quale rapporto vi potrà mai essere fra quella che la tradizione filosofica e letteraria ha sempre considerato il cuore dell’uomo, il centro del suo essere, e l’ultimo ritrovato della tecnologia, avveniristico e innovativo finché si vuole, ma pur sempre un oggetto?

Il legame c’è, eccome. Almeno secondo il filosofo Maurizio Ferraris, che al Festival della mente di Sarzana (dal 3 al 5 settembre, www.festivaldellamente.it) terrà una lezione dall’inequivocabile titolo: “L’anima el’iPad”. L’idea di fondo è chela tavoletta della Apple sia un’immagine, una metafora, della nostra anima...

Perché l’iPad può essere assunto come una metafora dell’anima?  
«Platone diceva che l’anima assomiglia a un libro in cui uno scrivano scrive dei discorsi, e in cui un pittore dipinge immagini. Non è forse quello che avviene nella nostra mente quando pensiamo? E non è forse quello che avviene nell’iPad? Una delle più vecchie immagini dell’anima, che si ripresenta sistematicamente nella tradizione filosofica e nel senso comune, la descrive come un supporto scrittorio, come una tavoletta di cera, come una pagina bianca, insomma come una delle varie forme che, nel tempo, sono state adoperate per fissare la memoria. E la mente si rappresenta attraverso l’immagine di un supporto esterno per scrivere, il supporto esterno viene spesso trattato come se fosse una mente, per esempio quando si dice senza difficoltà che l’iPad ha 64 giga di memoria. Ovvio, si potrà sempre dire che l’anima non è solo la mente, che c’è dell’altro, ma anche in questo caso è difficile pensare a un’anima senza memoria, cioè senza identità, ricordo delle azioni compiute, inclinazioni, forze e debolezze – tutte cose che hanno rigorosamente bisogno di memoria. Per questo l’Alzheimer ci fa così tanta paura, una paura che non è solo funzionale (dopotutto, l’Alzheimer in sé e per sé potrebbe essere divertente, si conoscono sempre persone nuove…) ma è morale: cosa resta di noi se non ci ricordiamo di noi stessi?».

- In quale modo l’utilizzo dell’iPad (e delle più moderne tecnologie) plasma e modifica la cultura e le attitudini  morali del soggetto?  
«Per quanto riguarda la cultura, offre un’enorme biblioteca. In questo momento il mio iPhone è pieno di libri e di iscrizioni, molto più che la biblioteca di Alessandria al massimo del suo splendore. Questo è abbastanza ovvio. Quello su cui vorrei portare l’attenzione – riallacciandomi alla domanda precedente - sono piuttosto le implicazioni morali. Si è spesso sostenuto che la tecnica de-responsabilizza, delegando alla macchina delle prerogative umane, e che in questo senso disumanizza. Io non sono convinto che sia così, in generale (non c’è niente di meno umano di un uomo privo di tecnica, ridotto a essere un bruto assillato da bisogni elementari a cui non sa rispondere), e che non lo sia in particolare per quelle tecnologie della scrittura di cui l’iPad è per questo (brevissimo) momento il rappresentante emblematico. Proprio il fatto di registrare rende responsabili: una promessa fatta tra amnesici non sarebbe una promessa, sarebbero parole al vento. Per questo il mondo si è riempito di carta, di archivi, di registri. Ora, l’iPad, i computer e i telefonini sono un enorme potenziamento degli archivi, e in questa misura aumentano enormemente la responsabilità, che è anzitutto obbligo di rispondere. Banalmente, i vecchi telefoni fissi, localizzati e senza memoria, potevano squillare per giorni interi, se non eravamo nei dintorni non avevamo obblighi. Mentre se spegnamo o silenziamo il telefonino per un’ora quando lo riapriamo troviamo montagne di “chiamate non risposte” (così nel gergo), di sms e di e-mail, e questo suscita una responsabilità e una angoscia. Si dirà che questa responsabilità appare poco elevata, ma non è vero: si pensi al testo del Dies irae: “Liber scriptus proferetur, | in quo totum continetur, | unde mundus judicetur”: “Verrà aperto il libro, | nel quale tutto è contenuto, | in base al quale il mondo sarà giudicato.” La responsabilità morale, nel suo nocciolo, è proprio questo, iscrizione, registrazione, e l’onniscienza e onnipotenza divina si rappresenta come il possesso di un libro in cui tutto è scritto, nulla è nascosto o dimenticato».

- L’iPad è un’estensione materiale della nostra mente (anima)?  
«Ovviamente l’iPad è una immagine dell’anima, non è l’anima, resta comunque qualcosa di esterno: se qualcuno dicesse che l’iPad è la sua mente si comporterebbe come uno scolaro sorpreso a copiare che cerchi di giustificarsi sostenendo che gli appunti o il libro nascosti sotto il banco sono la sua mente. L’iPad è dunque a tutti gli effetti una protesi, una delle tantissime che ci hanno accompagnato nel corso della nostra cultura. È tecnica, e la tecnica non è che una grande macchina per produrre macchine, cioè protesi: clave, ruote, fuoco. In questo insieme di tecniche, quella socialmente più decisiva è la scrittura, che ci permette di registrare al di là del verba volant, di rappresentare, di comunicare a distanza. E l’iPad è tra le versioni (per il momento) più evolute di questa tecnica che è la scrittura. Ma dobbiamo ovviamente essere consapevoli del fatto che presto ci sarà altro, e che fra non molto questa nostra conversazione sarà puro antiquariato. Le macchine invecchiano, la tecnica no, perché il bisogno di protesi è eterno o almeno lungo quanto l’uomo».

- C’è una similitudine fra il modo in cui l’io (e la sua anima) e l’iPad filtrano e impostano il rapporto con l’alterità?  
«Be’, in entrambi i casi perché l’alterità si faccia avanti sono necessari certi presupposti, le dodici categorie e  lo spazio-tempo di Kant per l’Io, i protocolli e il fatto che ci sia campo (e troppo spesso non c’è!) per l’iPad. E soprattutto in entrambi i casi l’alterità può irrompere inaspettata, lo choc, la morte, l’assenza di campo, la batteria che si scarica, lo hard disk che si spezza…».

- Si può sostenere che l’iPad (e il telefonino, e le mail, e le chat, e i blog...) è diventato "il luogo" privilegiato dell’incontro con l’altro? 
«Sì, e non sono sicuro che sia necessariamente un fatto negativo. Dopotutto la tecnica è sempre servita a mediare tra gli uomini, e anche la piazza, l’agorà, è una invenzione tecnica, così come le lettere di Werther e di Ortis. Il bello è che di questi nuovi modi di incontro qualche decennio fa non si aveva il minimo sentore, e libri e giornali erano pieni di lamentazioni sulla solitudine dell’uomo moderno perso in metropoli spersonalizzanti e che impediscono i rapporti umani. Se consideriamo che oggi almeno un terzo della nostra giornata se ne va in mail e telefonini direi che le cose sono cambiate, e che non siamo messi così male».  

Paolo Perazzolo
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