28/05/2010
Enrico Moretti Polegato, presidente di Diadora.
Attenti, questo signore ci farà le scarpe.
E poi, complici i 29 anni non ancora
compiuti, le magliette, i palloni,
le felpe e chissà che altro. Enrico Moretti
Polegato, già vicepresidente e amministratore
esecutivo della Geox, è il presidente
di Diadora, storico marchio italiano dell’abbigliamento
sportivo, rilevato circa un anno
fa dalla finanziaria di famiglia.
Sì, perché un
cognome simile non si nasconde: Enrico è figlio
di Mario, l’inventore della “scarpa che respira”,
l’imprenditore che in quindici anni
ha creato il secondo gruppo calzaturiero al
mondo, un’azienda che dedica il 2% del fatturato
(860 milioni di euro nel 2010) alla ricerca
e sviluppo. Con il nuovo incarico, Enrico
(una moglie, Claudia, conosciuta all’università,
e una bimba in arrivo per agosto) si è
preso il compito di «riportare Diadora tra i
nomi che più contano nel mondo dello
sport». Non è poco. Ma non ho potuto non
chiedergli altro. Per esempio, quanto segue.
Al di là della responsabilità “industriale”,
lei non sente anche una responsabilità familiare?
Con un padre che è stato miglior imprenditore
italiano, miglior imprenditore
dell’anno, miglior innovatore (premio ricevuto
tre mesi fa a Londra dal Financial Times),
ci sarebbe di che tremare...
«È logico che senta una certa responsabilità
di discendenza, per dir così, anche se nessuno
me l’ha mai fatta pesare. Io, peraltro, vivo
tutto questo come una grandissima fortuna:
quella di aver vissuto dall’interno la crescita
di un vero fenomeno imprenditoriale.
Onestamente, come potrei lamentarmi?».
Però lei ha studiato legge, è avvocato, ha
lavorato in studi legali. Mai avuto la tentazione
di dire: sai che c’è? Faccio l’avvocato...
«No, mi piace questo lavoro. Imprenditore
giurista, magari, ma imprenditore».
Qui siamo a Caerano San Marco, piena
Marca trevigiana. Diadora, come Geox, ha
una dimensione internazionale. Però è anche
molto legata al territorio. La sua famiglia,
poi, è addirittura legata alla terra, ai
campi. Come stanno insieme le due cose?
«Sta tutto nella visione che si ha dell’impresa.
Il successo a cui simira dev’essere globale
ma le radici devono essere locali, perché
così diventano un punto di forza».
Anche per un’azienda che ha delocalizzato
all’estero gran parte della produzione?
«Non va dimenticato che qui siamo in uno
dei più importanti distretti d’Italia per la calzatura,
soprattutto per quella sportiva. Il territorio
è una risorsa anche per le professionalità
e le risorse umane che qui si possono trovare,
per il know how di cui esso è impregnato.
Proprio per questo posso dire: sì, è vero,
abbiamo delocalizzato la produzione, ma il
cervello rimane qui, la fantasia del design
viene da qui, la ricerca si svolge qui, il commerciale
è organizzato da qui. Tutta la parte
“pensata” dell’industria della calzatura si
svolge sempre qui».
Le nuove generazioni continuano a crescere
in questo ambiente?
«L’età media dei nostri dipendenti non supera
i 40 anni, il che dimostra che un certo sapere
continua a essere trasmesso».
Non sarò irrispettoso se dico che, nell’Italia
della disoccupazione giovanile al 28%,
dal punto di vista del lavoro lei è un privilegiato.
Però ha studiato bene, ha preso l’abilitazione,
si è messo a lavorare, ha fatto delle
cose. I bamboccioni esistono o no?
«Io non ne ho mai incontrati. All’università
eravamo un gruppo di amici, faccia conto
una decina, e tutti ci siamo laureati entro i 26
anni. Abbiamo fatto squadra, ci siamo sostenuti
a vicenda, nessuno di noi aveva l’ambizione
di passare la vita all’università».
Quindi a un coetaneo che cosa direbbe?
«Di credere sempre nelle proprie idee. Forse
ciò che più manca, nel nostro Paese, è il sostegno
alle idee imprenditoriali
che possono venire anche
a un giovane. D’altra parte,
a noi non viene insegnata
la cultura d’impresa, cioè il
modo per sfruttare un’idea
dal punto di vista professionale.
Sarebbe la chiave per
passare dal mondo della formazione,
pure necessaria, a
un mondo del lavoro che dia
anche soddisfazioni».
Qui siamo nel mitico Nord-
Est. Leghismo e così via. Lei
come definirebbe questo mito
italiano contemporaneo?
«Un imprenditore veneto una volta ha detto:
“I veneti sono come i texani, sanno sempre
dov’è la frontiera”».
Bella definizione. Chi era l’imprenditore?
«Mio padre, ma questo non è importante».
E che cosa, invece, del mitico Nord-Est
non è tenuto in giusta considerazione?
«Che questa è una terra di cultura, con due
delle università più prestigiose d’Italia, a Padova
e Venezia. Che il Veneto è la prima regione
per presenze turistiche. Che qui c’è un
forte spirito di solidarietà, questa è una delle
regioni a maggior vocazione di volontariato
e forse quella in cui gli immigrati sono meglio
integrati. Che si parli del lavoromi fa solo
piacere, visto che è il settore in cui e di cui
vivo. Ma queste altre cose sono troppo poco
pubblicizzate».
Un’ultima domanda: davvero lei ha solo
29 anni da compiere?
«Direi proprio di sì. Lavoro, la sera vado a
casa, sto con mia moglie, vedo gli amici, la
domenica vado in chiesa. Normale, no?».
Fulvio Scaglione