Renzo Arbore: l'Italia secondo me

15/04/2010

     «A Torino, poi, è una specie di prodigio: i biglietti spariscono appena messi in vendita, l’altra sera tutto il teatro cantava in coro Reginella, e non erano certo i “terroni”». Renzo Arbore resta il personaggio più trasversale che c’è: popolare e intellettuale, per grandi e piccini, alla radio e in Tv, tra New Orleans e Napoli, al computer e al mandolino, e a Sud come a Nord. Tanto che appunto si parlava dei “tutto esaurito” dell’Orchestra Italiana a Torino e Bologna e Milano e se non facesse un po’ paura persino a lui, l’italiano ad alto gradimento, presentarsi in Padania come alfiere del Meridione.
    
     «Paura non abbiamo», dice Arbore ridendo e snocciolando i molteplici avamposti nordisti (Lecco, Novara, Asti…) già espugnati a ritmo di tarantella. «C’è sempre, ovunque, un pubblico che cerca le cose belle. E tra le cose belle ce n’è una che persino i napoletani hanno a lungo sottovalutato: l’impatto melodico delle loro canzoni, che sono ormai un patrimonio culturale di tutti. Sono entrate nel Dna degli italiani ma anche in quello di tantissimi stranieri».

– Lei ha fondato l’Orchestra Italiana nel 1991. Forza Italia, il partito, nasce nel 1994. Ciampi, il presidente che rivaluta bandiera e inno,s’insedia nel 1999. Si sente un precursore?
     «Nei primi anni Ottanta feci Telepatria International, il programma ch’era un tripudio di tricolore e aveva, per la prima volta, un pubblico di militari, grazie all’autorizzazione del ministro della Difesa Lagorio. In quel periodo l’Italia la chiamavamo “il nostro Paese” per non dire “patria”…».

– Patria sembrava un po’ di destra.
     «Sì, era così, chissà perché. Manco si faceva più la sfilata del 2 giugno… Poi, nel 1991, quando fondai l’Orchestra, era già più facile. Sono partito da Napoli, c’erano Ciampi e il G7, la città veniva ripulita dopo un periodo terribile. Infatti, il primo disco fu Napoli punto e a capo».

– Quindi, non solo ammette ma rivendica.
     «Sono patriota e rivendico. E visto che mi provoca, le dirò che il presidente Napolitano ha scelto l’Orchestra Italiana per festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia. Ci lusinga moltissimo, perché risponde al nostro intento: portare in giro un’immagine classica ma anche elegante del nostro Paese».

– Ha spesso suonato per gli italiani all’estero. Qui c’era un ministero per loro e non c’è più, è uscito uno scandalo. Li conosciamo poco?
     «Per questioni d’età, ahimè, ho visto salpare gli ultimi bastimenti da Napoli e ho avuto qualche compagno, da bambino, partito con i genitori per i “Paesi assai lontani”. Penso che l’Italia abbia fatto un torto a questa gente: erano i più poveri, sono stati costretti ad andarsene, non abbiamo mai riconosciuto il peso delle sofferenze che hanno affrontato e i contributi decisivi che hanno dato alla cultura nostra e di altri Paesi. È una ferita ancora da sanare».

– Ma negli incontri con loro che cosa sorprende di più?
     «Hanno un amore sviscerato per le origini. Poi, però, chiedi: torneresti in Italia? E la risposta è quasi sempre: no».

– Perché, secondo lei?
     «Mah! Si sono abituati a Paesi in cui la vita è più… precisa».

– Lei è stato ed è testimonial di iniziative benefiche. Noi italiani siamo buoni come ci
piace pensare? Dai giornali e dai Tg esce un Paese anche aggressivo, violento.

     «Ci sono italiani di due tipi. Il mondo del volontariato, che conosco attraverso la Lega del filo d’oro e altri, conferma che abbiamo il senso della solidarietà verso chi non è fortunato. Ma c’è anche un altro italiano, un tipo un poco ineducato, anche a causa della Tv. La Tv può non essere educativa, perché deve divertire, informare, consolare. Ma non dovrebbe essere diseducativa. Deve avere certi codici. Nulla di illiberale, basta non far credere che il successo nella vita si ottiene alzando la voce, mettendo in piazza il privato, trasgredendo in modo squallido. Anche l’abitudine alla violenza contribuisce a far succedere ciò che leggiamo sui giornali. Vent’anni fa, se vedevo una testa mozzata, non dormivo la notte. Ora siamo tutti abituati a ben altro».

– Però questo “altro” fa successo e consenso.
     «Sono un artista, non posso accettare che i numeri siano l’unico criterio, che sia bello ciò che vende di più. I numeri servono al commercio, alla pubblicità, a molte cose, ma non possono dettare il senso della vita. Altrimenti è più bravo Pupo di Ray Charles».

– Lei ha fatto programmi di musica come Doc. Come li vede i talent show di oggi?
     «Non male. Prima dei talent show c’erano i no talent show, programmi in cui certe signorine diventavano famose facendo nulla o mostrandosi intraprendenti. Chi aveva talento non aveva ribalte, escluso forse Sanremo Giovani, ma per arrivarci ce ne voleva. A Umbria Jazz, di cui sono presidente, abbiamo preso un gruppo, i Cluster, scoperto grazie a X Factor».

– Una delle sue canzoni s’intitola Pecché nun ce ne jammo in America? Ecco, perché?
     «Io sono innamorato dell’America. Ma l’Italia è un tale concentrato di bellezze naturali e culturali che bisognerebbe far pagare il biglietto per entrarci. E forse anche per viverci. Però accanto a questo, e ai talenti di tanti, c’è un assetto politico e sociale non molto…».

– Preciso?
     «Ecco, sì: non molto preciso».

 

Fulvio Scaglione
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