01/05/2010
Andrea Camilleri
Nota di servizio per gli insaziabili lettori di Andrea Camilleri. Lo scrittore siciliano ha già prodotto "tanticchia" di nuove opere. «In questo momento la Sellerio è come un lavandino intasato. Ho lasciato già cinque Montalbano e due romanzi storici. Poi ne ho un altro in uscita con Mondadori». Sembra inarrestabile questo produttore seriale di best seller che a settembre compie 85 anni. Il suo segreto forse sta nel metodo, oltre che nella felicità di scrittura. «Mi alzo alle sei, alle 7 meno un quarto sono rasato e vestito davanti alla scrivania, non riesco a tampasiare casa casa se devo lavorare. Scrivo e ricorreggo tutta la mattina, sorseggiando una birretta da 750 cc fino a mezzogiorno, poi bevo solo acqua per tutto il resto della giornata. Purtroppo da qualche anno il dottore mi ha proibito il whisky, che mi piaceva assai». Da tempo Camilleri, (che ha appena ricevuto a Luino il premio Chiara per la letteratura), ricorre all’"informaticcia", come direbbe Catarella, ovvero al computer. «Sto scrivendo un Montalbano. Nella mia testa il commissario si sta annoiando a Bocca d'Asse, da Livia, a Genova, perché in Questura si sono accorti che ha una tale quantità di ferie arretrate che le deve smaltire. Naturalmente in questa noia gli stanno succedendo delle cose. A proposito: tutti i Montalbano hanno la stessa misura, se ne è accorto? Diciotto capitoli da dieci pagine mie ciascuno. Se non rientra in questa misura canonica vuol dire che il romanzo è sbagliato».
La scrittura, spiega lo scrittore di Porto Empedocle, è come un esercizio fisico e va esercitata quotidianamente. «Magari scrivo una cosa qualsiasi, che so, una lettera al signore che ho incontrato in edicola. Ritengo che l’esercizio della scrittura debba essere quotidiano come un pianista che fa gli esercizi. Dopo un po’ si perde la mano. Tre pomeriggi a settimana li passo a rispondere alle lettere dei lettori. Lo sento come un dovere quello di rispondere. Sono stati i lettori a farmi, ho un debito verso di loro»
- Che le scrivono?
«Di tutto. Di solito sono lettere elogiative. Spesso di un affetto incredibile. Ce n’è una che mi ha schiantato: era di una donna di 30 anni. Diceva: sto morendo, ma lei mi ha regalato col suo libro un’ultima risata. Non ha nemmeno messo il mittente con l'indirizzo, solo la firma. Voleva solo farmelo sapere. Ma c’è anche chi mi fa osservazioni o mi critica. Uno, piuttosto arrabbiato, mi ha scritto: lei non può affibbiare le sue idee politiche a Montalbano, perché Montalbano ormai appartiene a tutti».
- E lei che ha risposto?
«E allora se lo scriva da sé».
- Qual è il libro a cui è più affezionato?
«Il ladro di merendine".
- Si dice che i personaggi vanno avanti da soli e sfuggono al controllo dello scrittore. E così anche per lei?
«Diamine, è proprio così. Specie per i personaggi che Simenon definiva “palettati”, ovvero un po’ definiti, caratterizzati. Se non si sta attenti tra la velocità di scrittura del computer e la capacità ectoplasmatica di andare avanti da soli, i personaggi rischiano di andare per conto proprio. Bisogna stare con tanto d'occhi».
- I bambini finiscono spesso nei suoi romanzi, quasi ci fosse un istinto di protezione.
«L’infanzia è uno dei mondi e dei valori supremi da difendere. Quando avevo i nipotini piccoli scrivevo che loro facevano mutuperio sotto il tavolo. Del resto non sono uno scrittore che ha bisogno della quiete per trovare ispirazione. Gli uccellini e la campagna mi deprimono».
- Lei è credente?
«No, ma vado alla ricerca di certezze. In fondo, quando ti metti a scrivere vai sempre alla ricerca di qualche cosa. Mi piacerebbe tanto avere la fede. Però credo all'angelo custode. E sono molto legato a san Calogero, del quale ho narrato la festa nel mio primo romanzo, “Il corso delle cose”. Nel mio studio se guarda bene ce ne sono tre statuette. Nel mio paradiso deserto c'è un santo solo: un santo nero, san Calogero. Sono nato con qualche anticipo sul tempo previsto, il 6 settembre del 1925, giorno della festa del santo. Alle ore tredici esatte, nel preciso momento in cui il santo usciva dalla chiesa, io venivo alla luce. Allora la levatrice mi ha esposto al santo che passava di corsa (perché è un santo che corre)».
- Quanto a diritti dei bambini in Italia non siamo messi benissimo. Prenda Adro, il comune del Bresciano dove alcuni scolari rischiano di non mangiare alla mensa scolastica per volere del sindaco perché le famiglie povere non pagano le rette.
«La lettera dell’imprenditore che ha messo a disposizione 10 mila euro per saldare i debiti dovrebbe essere studiata nelle scuole. Ha un tale pregio morale che, forse, tra qualche tempo in quella che sta diventando un'Italietta, non riusciremo nemmeno a capirla".
- Gli episodi di intolleranza in Italia si susseguono. Pensava che si sarebbe mai arrivati a tanto?
«Sì. Ho cominciato a pensarlo quando ho saputo che molti pescatori non si prendevano cura dei cadaveri trovati in mare nel Canale di Sicilia. Preferivano ributtarli in mare quando li pescavano piuttosto che andare incontro alle rogne. Sono un uomo di mare. I morti in mare sono sacri. Questo è qualcosa che sta cambiando il dna dell’uomo di mare. Figuriamoci. Certo poi che così arriviamo all’umiliazione terribile del dire: voi bambini non mangiate perché il vostro papà non paga. Robe da matti. Ci sono i padri furbi? Va bene, pigliate a schiaffi il genitore che non paga la retta della mensa anche se ha i soldi. Ma lasciate stare i bambini. Che c’entrano i bambini?".
- Nei suoi romanzi un'altra categoria molto amata è quella della forze dell’ordine.
«Fin dall’infanzia ho avuto a che fare con magistrati, poliziotti e carabinieri ammirevoli per onesta e dedizione. Sono nato in un paese in cui c’era la mafia e dall’età della ragione so dov’è il torto e dov’è la ragione. E la ragione sta dalla parte di questi custodi della legge. Ho avuto quest’imprinting. E oggi soffro come se appartenessi all’Arma, al Corpo di Polizia o alla magistratura quando leggo di carabinieri o poliziotti corrotti o magistrati venduti. Perché mi pare una tale offesa, una tale ferita alla società.
- Un’altra figura molto amata è quella della donna. Le donne nei suoi libri sono quasi sempre vitali, affascinanti, forti, ammiratissime.
«E’ vero. Le ammiro, le donne. E devo dire che la mia vocazione al femminile va avanti da sempre. Mi ricordo un episodio. Quando ero allievo dell’Accademia d’arte drammatica andavo spesso a un caffè per prendere il cappuccino, dalle parti di piazza Venezia. In quel caffé vedevo spesso una signora anziana con un paio d'occhi meravigliosi. A 24 anni mi innamorai idealmente di questa signora dal viso bello e antico, che mi pareva mia nonna. Naturalmente, in quanto donna, questa signora si accorse del mio interesse. Un giorno mi sorrise e bastò perché io mi alzassi dal mio tavolo e mi andassi a presentare. E lei mi chiese perché lo fissavo. E io mi presentai e poi dissi: signora lei è così bella, mi ricorda mia nonna. Una gaffe clamorosa, mi volevo mangiare al lingua. E lei si presentò: piacere caro giovine, io sono Angelica Balabanoff. Era proprio lei, una delle principali esponenti del movimento socialista internazionale. Avevo intuito la qualità particolare di questa signora. E non è solo un fatto di bellezza, di attrazione fisica. La sensibilità all'ascendente della donna è di famiglia. Mio nonno, proprietario di miniera, la sera parlava sempre con mia nonna, e prendeva consigli. E il giorno dopo decideva sulla scorta dei consigli di sua moglie. Quando vidi le quattro ministre: finalmente vengono allo scoperto».
- Anche l’amicizia è un tema sviscerato nelle sue opere. Perché dice che l’amicizia in Sicilia è diversa?
«Perché è profondissima. L’amico per esempio non deve mai chiedere il favore. E’ l’altro che lo devo intuire. Io faccio il paragone con l’amore. L’amicizia siciliana è qualcosa di molto simile, è intuizione, è affetto, avendo capito profondamente il carattere dell’altro, ti fa fare il salto. Naturalmente c’è anche una variante negativa di questo atteggiamento".
- Che sta leggendo di bello in questo periodo?
«Un libro che ho letto con un piacere enorme sono stati i racconti di Tabucchi. Molto bello. Poi un romanzo ambientato a Palermo di un giovane che credo di professione faccia il batterista. Si intitola “Lume lume”. L’ho trovato straordinario. Un manuale di come affrontare il mondo, anche quello multietnico, con una apertura mentale bellissima".
- A proposito di mondo multietnico. La sua esilarante commedia "Il nipote del Negus", ambientata nell’Italietta fascista parla di un nobile eritreo venuto in Sicilia, nell’immaginaria Vigàta. Di questa commedia esiste anche la versione in audiolibro, letta da lei stesso, molto colorita ed espressiva. Colpisce la sua capacità istrionica di variare i personaggi.
«Quello è un residuo della mia esperienza di regista che ho fatto per 30 anni. Gli attori mi dicevano: fammi sentire come la vorresti, la battuta. E io per sommi capi gli indicavo come volevo che venisse recitata. I toni, i ritmi. E quindi sono cose che ti rimangono. Io sono stato costretto a fare questi cambiamenti appena accennati perché è un romanzo molto particolare».
- Tutta la commedia, come la Concessione del telefono si basa su questo intreccio basato sullo scambio delle lettere, dei fonogrammi, dei cablogrammi. E' solo un espediente letterario? O c'è qualcosa di più profondo? Quelle missive sono anche il simbolo di un’Italietta, l’Italietta fascista di capi e sottoposti, fatta di minacce e ossequi, in parte, se vogliamo, simile a una certa Italietta di oggi, in cui non si ha il coraggio di guardarsi negli occhi e dire quello che si pensa?
«Anche. Diciamo che tutto questo nasce da una mia attenzione a quello che era lo scambio epistolare burocratico. Che mi ha sempre impressionato, colpito, non solo perché non ci si guarda negli occhi. E’ naturale, scrivendosi. Però quando noi non osiamo guardare negli occhi per dire una cosa sgradevole, diventa una prova di debolezza. Una volta scrivevamo una lettera, oggi gli mandiamo un Sms. Oltretutto perdiamo meno tempo. Perfino certi licenziamenti oggi avvengono per Sms. Questo non so se sia un vantaggio o una perdita. Però mi colpiva anche il senso di distanza che un certo tono epistolare immediatamente frappone tra il mittente e il destinatario. E' anche un escamotage. Si tratta di una dilatazione del romanzo epistolare di ottocentesca memoria. Ma con una piccola diversità. Il romanzo epistolare era a due o tre voci. Qui c'è una molteplicità di personaggi».
- E’ una lezione che le viene dal teatro?
«Certamente. Se io descrivo per filo e per segno il personaggio, l’ambiente dove due o tre personaggi si incontrano, lascio poco margine al lettore. Lascio un esiguo margine di intervento. Se io invece gli faccio intuire due lettere, tre lettere e poco altro, a questo punto il lettore si trova un po’ come lo spettatore di teatro che è costretto a intervenire continuamente con la sua testa, ad appiccicare alla trama immaginazione, inventiva, ricordi, esperienza vissuta, riflessioni sue. Per me è importante dare al lettore una possibilità di collaborazione continua. Raffaele La Capria dice che a me piace scrivere il racconto e farlo andare avanti da sé mentre io sto a curarmi le unghie. In parte è anche questo: si tratta di avere l’astuzia del come offrire la materia e in che quantità. La partecipazione attiva del lettore è importantissima».
- Quella del giallo è ancora la molla narrativa della letteratura, come diceva il suo maestro Sciascia?
"Certamente. Anche se il giallo non necessariamente ormai si basa sulla formula "indovina chi è il colpevole", come avveniva in passato. Le racconto un aneddoto".
- Prego.
"Avvenne ai tempi in cui lavoravo come regista. Una volta mi ritrovai a Lecce con una compagnia teatrale. Tra gli attori c'era anche Salvo Randone. La notte gli facemmo uno scherzo feroce. Per vendicarsi Randone entrò di nascosto in camera mia ed eseguì un vero e proprio delitto, armato di una lametta".
- Che delitto?
"Mi tagliò con la lametta l'ultima pagina dei tre gialli che avevo sul comodino, su cui erano indicati i nomi dei tre colpevoli. Scoprii il delitto alle due di notte, dopo essere giunto in fondo alla lettura di uno dei tre. Mi precipitai disperato con un taxi alla stazione, l'unica con l'edicola aperta anche di notte, per cercare di trovare almeno una delle copie dei tre gialli. E invece nulla. Ricordo la faccia di Randone la mattina dopo, quando lo incontrai, come quella di un gatto col topo in bocca: "Ti sono piaciuti i gialli?", mi chiese. Ma oggi il giallo è strutturato in maniera diversa non è più un rompicapo-indovinello per il lettore, può diventare anche un percorso, un espediente necessario a veuicolare ben altri contenuti, come i miei Montalbano".
- Molti suoi romanzi storici sono ambientati nel periodo dell’Unità d’Italia. Che ne pensa del federalismo?
«L'Unità d'Italia è stato un processo storico irreversibile. I problemi sono nati dopo. Non si tratta di piangere sulle spalle del Nord, ma di conoscere i punti di partenza. Un esempio tra i tanti: gli ottomila telai siciliani che dopo l’arrivo dei "piemontesi" non esistono più per favorire i telai di Biella.C’è anche un altro fatto più serio, lo riporta lo storico Francesco Luigi Oddo in un fondamentale saggio edito da Laterza...»
- E quale?
«Prima dell’unificazione in Sicilia non c’era la leva obbligatoria. Era un fatto economico. Il contadino che riusciva ad avere il figlio che gli arrivava a sedici anni e diventava forza lavoro, produttore di pane, braccia, se lo vedeva sottrarre per tre anni dallo Stato. E allora isiciliani accompagnavano i figli al distretto militare vestiti a lutto come a un funerale. Sempre da Oddo nel giro dei tre quattro anni che seguirono l’Unità d’Italia il grafico delle nascite ando a picco: perché fare figli per darli allo Stato? Le nazioni federaliste sono nate già con l’idea di essere federate. Ma non si è mai visto uno Stato unitario che fa il processo inverso. Le sembra il momento di fare degli esperimenti?».
- L'idea del ministro Gelmini di istituire graduatorie regionali per gli insegnanti le piace?
«Ma perché si deve aver paura di un professore del Sud? Che fa, inquina? È una cosa così devastante e così stupida che mi vengono a mancare le parole. E allora facciamolo anche con le altre categorie. Con i giornalisti, per esempio. Il Corriere della Sera ha la redazione aMilano? Giornalisti milanesi e basta. Anche se ha avuto Alfio Russo, siciliano, o Afeltra, che era di Amalfi. Ma come si fa a non capire che ogni uomo che arriva in un luogo e che si porta dietro una cultura è un innesto, un arricchimento?».
- Cosa le piace di Bossi?
«Niente. La Lega ha un'attenzione al proprio "particulare", come diceva Guicciardini, devastante. Ha urlato: a noi le banche del Nord. Che significa? Le aziende non sono società private? Questa è lottizzazione. Ma come, dite a noi siciliani che siamo parassiti e poi fate un'operazione clientelare? La Lega fa veramente scricchiolare la nazione".
- Che scricchioli non lo dice solo la Lega.
«L’ho vissuta tutta questa storia, fin dai suoi inizi. Il secessionismo lombardo! Anche noi siciliani abbiamo patito la nostra stupidità con il separatismo. Tra l'altro, ho due stretti parenti (due zii, uno che porta il mio nome, Andrea Camilleri e l'altro si chiama Giuseppe Fragapane) che a 20 anni sono andati a morire per l'Italia. Per questo non tollero che si offenda il tricolore come fanno i Bossi padre e figlio. I morti vanno rispettati».
- I due romanzi storici già pronti di cosa parlano?
«Uno si riferisce a un fatto dell'inizio del '900. Si intitola "La Setta degli angeli". Fu un grosso scandalo che riguardò alcuni preti in Sicilia e contro il quale con un durissimo articolo intervenne addirittura don Sturzo. Si trattava di alcuni giovani preti che approfittavano di alcune giovani spose. A me questo non interessa, è solo un punto di partenza. Mi interessa la storia autentica del giornalista locale che scopre la cosa e comincia a denunziarla. In un primo momento tutto il paese è d'accordo con lui. Ma in un secondo momento quest’uomo che ha messo in piazza lo scandalo e che fa danni viene talmente esiliati che se ne deve andare in America, dove diventa il fondatore della Voce degli italiani».
- E il secondo?
«E’ la storia sulla banda Sacco. Una banda composta da cinque fratelli siciliani la cui missione è ammazzare i mafiosi. Diventano come dei vendicatori, dei giustizieri solitari, come nel Texas. Diventano degli assassini al di sopra della legge. Siamo all'epoca del prefetto Mori. Vengono condannati all'ergastolo e poi graziati da Segni perché Terracini si fece loro avvocato. Io ho avuto tutti i documenti e i processi dal nipote e ho scritto questo libro contro la mafia ma al tempo stesso contro i giustizieri solitari. IL libro dunque è a metà tra il garantismo e la lotta alla mafia. Oggi la mafia sta cambiando. Oggi della mafia possono far parte anche le classi medie, i professionisti. E quindi il fenomeno diventa meno visibile e più in profondità».
- E' ottimista sul futuro dell’Italia?
«Io sono sempre ottimista. Contrariamente ai vecchi della mia età».
Francesco Anfossi