27/03/2012
L'Arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, durante l'intervista e nel Duomo di Milano.Le fotografie di questo servizio sono del nostro fotoreporter Alessandro Tosatto.
«C’è ancora tanta voglia di famiglia.
Niente è perduto, siamo
nel tempo delle grandi
scelte». Spiazza ancora una
volta il cardinale Angelo Scola. E lo fa, stavolta,
sui temi a lui cari del matrimonio e
dell’unione familiare. All’arcivescovo di Milano,
che è anche membro del Comitato di presidenza
del Pontificio consiglio per la famiglia
e già preside del Pontificio istituto Giovanni
Paolo II per lo studio su matrimonio e
famiglia, nonché autore di vari saggi sul tema,
la categoria di “crisi”, in questo caso,
non piace, perché non spiega tutto, anzi talvolta
può perfino forviare. Così mette la sordina
alle tante Cassandre che hanno già cantato
il De profundis per la famiglia, ricordando
che già alcuni decenni fa c’era chi teorizzava,
con la “morte del padre”, la fine di
quest’istituzione ritenuta ormai fuori moda.
Questo non significa, secondo l’ex patriarca
di Venezia, negare l’evidenza di una febbre
patologica, che cioè, fuori metafora, la
«società complessa e plurale» rende difficili il
matrimonio e la generazione dei figli, e ancora
che la «frammentazione sociale e dell’io rischia
di minare le relazioni all’interno della
comunità familiare», ma da questo travaglio
epocale si può uscire. Come?
A due mesi dal VII Incontro mondiale delle
famiglie che si celebrerà a Milano, abbiamo
chiesto al cardinale di fare il punto sullo
stato di salute della famiglia e sul nesso vitale
che intercorre tra affetti, lavoro e riposo,
che è poi il focus tematico del Family 2012.
– Eminenza, lei ama dire che «non è mai vero
che tutto va male». Ma sostenere che, nonostante
le difficoltà presenti, ci sia “voglia
di famiglia” potrebbe, a prima vista, sembrare
temerario. Non le pare?
«Non sono io a dirlo, lo dicono i numeri
della quarta indagine European Values Studies
sui valori in cui credono gli europei che
evidenzia che la famiglia è ritenuta importantissima
dall’84 per cento degli europei e dal
91 per cento degli italiani. In 46 Paesi su 47
viene messa al primo posto, precedendo
aspetti centrali del vivere sociale come il lavoro,
le relazioni amicali, la religione e la politica.
A partire da questi dati, non ci è consentito
parlare in termini assoluti di crisi della famiglia;
dobbiamo piuttosto chiederci da dove
deriva il travaglio che la sta attraversando».
– Che ipotesi si possono fare?
«Mi pare che uno dei fattori più determinanti di questo disagio sia il modo in cui viene
pensata e praticata la relazione di coppia,
il rapporto uomo-donna. Molto è cambiato
in quest’ambito negli ultimi decenni. Basti
pensare alla cosiddetta “rivoluzione sessuale”,
alla prassi della contraccezione e al cammino
che ha portato all’emancipazione femminile.
Persino la “differenza sessuale”, che è
una dimensione intrinseca all’io, è stata messa
in discussione. Come sempre capita quando
si verificano fenomeni di forte e rapida
mutazione, l’assestamento crea disagi, chiede
tempo. Solo oggi, in certi ambiti del femminismo,
si incomincia ad affrontare la questione
in termini innovativi, proprio a partire
dall’insuperabilità della “differenza sessuale”.
Questo ripensamento potrebbe essere il
punto di partenza per affrontare le contraddizioni
e le “anomalie” che oggi si sono create
nel rapporto uomo-donna e che, a mio avviso,
stanno anche alla base del travaglio della
famiglia. Intendiamoci: sto parlando di difficoltà
che occuperanno i prossimi decenni, legate
al grande smarrimento antropologico di
questo inizio di millennio».
– Non si tratta allora di una crisi irreversibile,
ma di un disagio forte che preannuncia
qualcosa di nuovo. Per dirla con il filosofo
Massimo Cacciari, «si vive in una società
che potrà dar vita ad aperture imprevedibili, a opportunità positive, o a catastrofi»?
«L’uomo del terzo millennio è esposto a
una sorta di scommessa. Pervaso e travolto
dal moltiplicarsi di fenomeni inediti come la
globalizzazione, la civiltà della Rete, il progresso
delle neuroscienze e delle biotecnologie,
il meticciato delle culture, è chiamato a
scegliere, e non può non farlo, che cosa vuole
essere: un io in relazione, oppure, come sostiene
qualcuno, il puro esperimento di sé
stesso? La partita decisiva si gioca qui».
– Da sempre la Chiesa ha proposto la “convenienza”
e la bellezza del matrimonio cristiano,
ma mai come oggi l’istituzione matrimonio
è in crisi. Lo dicono i dati su separazioni
e divorzi. Che fare, allora?
«Dovremmo essere tutti invitati e nobilmente
provocati a riconoscere un fatto: la famiglia
è “un universale sociale e culturale”.
Un autorevolissimo antropologo, certamente
non sospetto di cattolicesimo, come Claude
Lévi-Strauss affermava che “un’unione socialmente
approvata tra un uomo e una donna
e i loro figli è un fenomeno universale
presente in ogni e qualunque tipo di società”.
A questo “universale” si addice propriamente
il nome di famiglia: altre forme di convivenza
potranno ricevere altri nomi, ma
non si possono chiamare famiglia. Come in
modo insuperabile ci ha ricordato la Redemptor
hominis, il cristianesimo è il giocarsi di
Dio con la nostra storia per svelare pienamente
l’uomo all’uomo. Allora il sacramento
del matrimonio è la realizzazione piena e
“con-veniente” di questo “universale sociale”,
per utilizzare l’azzeccata definizione
dell’antropologo francese. In una società plurale
come la nostra, i cristiani sono chiamati
a documentare questa convenienza con la loro
testimonianza compiuta. Ciò implica, tra
l’altro, una capacità di abbracciare le famiglie
ferite per condividere la loro prova».
– Nel frattempo la politica detta i cambiamenti
e le nuove regole anche rispetto al
matrimonio e al suo eventuale scioglimento.
Il nostro Parlamento, proprio in questi
giorni, sta discutendo sul cosiddetto “divorzio
breve”, che il Governo Zapatero, in Spagna,
ha già approvato nel 2005...
«Mi sembra un passo decisamente sbagliato.
“È dalla pazienza che si misura l’amore”,
dice il poeta Milosz. Normalmente un matrimonio
domanda ai coniugi molto coinvolgimento
reciproco e tempo di preparazione.
Quando va in crisi, pensare di eliminare il
problema sbarazzandosene il prima possibile
è, oltre che un’illusione, una mancanza di
responsabilità verso sé stessi e, spesso, verso
i figli. Seppellire frettolosamente una relazione,
per quanto dolorosa possa essere, non è
una buona premessa per costruire il futuro.
Su questa delicatissima materia voglio aggiungere una considerazione: ogni istituzione
deve attenersi rigorosamente a ciò che le
compete e a ciò che è effettivamente in suo
potere. Lo Stato, come istituzione, deve registrare
l’orientamento prevalente che si manifesta
all’interno della società civile. È questa,
per esempio, la tesi di Habermas. Insomma,
lo Stato non è chiamato a gestire la società civile,
ma a governarla. Si tratta di una distinzione
fondamentale, che viene troppo spesso
dimenticata, con il grave rischio di imporre
alla società scelte ideologiche».
– Lo stesso discorso può valere anche nei
confronti del “registro delle coppie di fatto”,
già istituito in alcuni Comuni...
«Sì, ovviamente. Generare e riconoscere veri
e propri diritti soggettivi non è oggetto proprio
di provvedimenti amministrativi: questo
è il compito del potere legislativo. Mi pare
che operazioni di questo tipo possiedano
una preoccupante connotazione ideologica
che, nel caso in questione, contraddice la
stessa Costituzione italiana, che all’articolo
29 afferma: “La Repubblica riconosce i diritti
della famiglia come società naturale fondata
sul matrimonio”. Viviamo in una società plurale,
e ci confrontiamo con “mondovisioni”
diverse, ma proprio per questo siamo chiamati
tutti, come cittadini, a proporre il bene
comune circa le questioni fondamentali del
vivere. Così i cristiani, e anche molti non credenti,
pienamente convinti della forza
dell’“universale sociale” che è la famiglia,
propongono a tutti questo dato e, in ogni caso,
sostengono la necessità di chiamare ogni
cosa con il proprio nome. Il nome famiglia
non si addice ad altre forme di convivenza.
Ostinarsi a utilizzarlo confonde e finisce con
lo svuotare i preziosi fattori costitutivi della
vera famiglia».
– Nota forse un timore, un deficit di testimonianza
in questo senso?
«Sì, anche tra i cristiani, in nome di un
frainteso concetto di libertà, si accetta una
posizione neutrale. Si dice: io tengo alla famiglia,
ma lascio liberi gli altri di agire come
meglio credono. Questo atteggiamento è la
morte del dinamismo sociale. Infatti, più la
società è plurale, più ho il dovere di proporre,
sottolineo “proporre”, ciò che reputo decisivo
per la vita buona – in questo caso il matrimonio
e la famiglia – in vista di un confronto
appassionato e di un possibile reciproco
riconoscimento. A noi è chiesto di proporre
il bene della famiglia e del matrimonio».
– Da tempo i cattolici denunciano l’insufficienza
di politiche di sostegno alla famiglia.
Cambiano i Governi, ma il risultato è lo stesso.
Perché in Italia è così difficile promuovere
politiche sociali pro-famiglia?
«L’assenza di politiche sociali e culturali in
favore del bene prezioso della famiglia è grave tanto quanto l’impegno disatteso nei confronti
della libertà dell’educazione. Sono
due grossi handicap che l’Italia si trascina da
tempo».
– E ora con la crisi dell’economia tutto è ancora
più difficile...
«Certo. Ma una volta di più la famiglia sta
dimostrando la centralità del suo ruolo sociale
e anche economico, fungendo da ammortizzatore
rispetto alla crisi in atto. Moltissime
famiglie stanno affrontando con estrema dignità,
e anche con maggiori sacrifici rispetto
al passato, la grave situazione della mancanza
di lavoro. C’è un senso di responsabilità
nel nostro Paese che più in generale denota,
contrariamente a quanto vanno dicendo alcuni,
la grande nobiltà della nostra società civile.
Per capacità di costruire relazioni, partecipazione
e solidarietà, lo dico senza timore
di essere smentito, siamo i primi d’Europa».
– Una certezza di giudizio che proviene anche
dall’esperienza pastorale?
«È così. Nella diocesi di Milano, come già
mi era capitato a Venezia durante la Visita pastorale,
incontro comunità con una grande
vitalità che nasce dal basso, una straordinaria
passione di donare tempo ed energie per
gli altri. Un ricordo, per tutti: nella cittadina
di Caorle, che in inverno ha sì e no 5 mila abitanti,
si contano 70 diverse associazioni di volontariato.
Certo, spesso una simile vitalità
sociale coesiste con gli egoismi e le resistenze,
per esempio, nei confronti del fenomeno
degli immigrati che bussano alle nostre porte,
ma c’è una ricchezza che la politica non
ha ancora saputo interpretare».
– La perdita del lavoro e la disoccupazione
giovanile minano pesantemente la stabilità
delle famiglie italiane. Quanto pesa la crisi
nella paura di fare famiglia oggi?
«Sarebbe facile e demagogico rilevare solo
questo dato, peraltro dolorosissimo. Penso
che si debbano anche comprendere fino in
fondo le trasformazioni radicali in atto nel mondo del lavoro, che ne intaccano la sua
stessa concezione».
– Allude alla fine del cosiddetto posto fisso?
«Anche. È fuori dubbio che la precarietà lavorativa
sia distruttiva, e che la mancanza di
prospettive incida sulla volontà di un giovane
di fare famiglia, spingendolo a forme più
precarie e disimpegnate di convivenza. Però
l’idea del posto fisso com’era inteso dai nostri
genitori, o dalla mia generazione, non
esiste più. Oggi si deve parlare di “percorsi lavorativi”.
In questa situazione occorre ripensare
le garanzie di accompagnamento, riformare
il sistema educativo prendendo sul serio
un piano di scuola professionale. Si può
fare l’idraulico o il costruttore di sedie in modo
culturalmente avanzato e creativo. Invece
che sfornare solo “dottori” a basso prezzo,
l’Italia dovrebbe pensare a percorsi di istruzione
professionale collegati all’Università,
come si fa in tanti altri Paesi europei».
– Il Governo intende rilanciare l’economia
con le liberalizzazioni. Una di queste riguarda
gli orari dei negozi: non sarà la fine del riposo
in famiglia e del concetto di festa?
«Partirei dalla triade saggiamente proposta
nel titolo del VII Incontro mondiale delle
famiglie: affetti, lavoro, festa-riposo. L’io ha
bisogno di fare un’esperienza di unità per poter
stringere buone relazioni. L’equilibrio psichico
di una persona che affronta le fatiche
del lavoro ha bisogno di vivere gli affetti e la
dimensione gratuita del riposo, che ha nella
festa il suo culmine. È il cosiddetto “tempo vibrato”,
come lo definiva Roland Barthes, richiamandosi
al benedettino “Ora et labora”.
Disgregare questi tre fattori espone la società
al rischio di situazioni patologiche. Se il padre
riposa la domenica, la madre il lunedì e
il figlio il giovedì, non avranno la possibilità
di ritrovarsi insieme. Viene a mancare la dimensione
del tempo condiviso, che è tempo
per la relazione con Dio e con gli altri. Creando
condizioni per cui il riposo festivo diventa
individualistico, frammentato, abolendo
di fatto il senso della domenica, noi annulliamo
l’efficacia stessa del riposo. Perciò, senza
demonizzare i grandi centri commerciali, mi
chiedo: serve davvero trasformare la domenica
in giorno feriale? Ne guadagneremo qualcosa?
».
Alberto Laggia