15/04/2010
Don Mazzi davanti alla comunità Exodus di Milano.
«Il cinquanta per cento delle cose
che faccio ogni giorno sono sbagliate,
va bene?». Si parte col piede
giusto. Ho dato un’occhiata in archivio
e di santini di don Mazzi,
80 anni, fondatore della
comunità Exodus e di un mare di altre
cose, ne ho trovati così tanti per i
70 anni da farmi passare la voglia. E
poi, siamo sinceri: questi preti “impegnati
nel sociale” siamo più abituati
ad ammirarli che ad ascoltarli. Così
questa non è un’intervista, né il bilancio
di una vita già lunga e piena. Un
tentativo d’ascolto, forse, in una stanza
in mezza luce, il registratore dietro
un cestello di amaretti. Sul tavolo di
don Mazzi, una coppa vinta nel calcio
e un piccolo otre d’olio. Niente computer.
Nella libreria, vangeli, testi di spiritualità
e psicologia, una storia della rivoluzione
bolscevica.
Cinquanta per cento: non è tanto?
«Figurati. Con una sessantina di
strutture sparse per il mondo, i casi
più disperati intorno e risposte che bisogna
dare in pochi minuti, è chiaro
che la sera devo sempre domandare perdono al Signore. E mi viene anche paura, il che è una grande fregatura».
Perché? Non è segno di prudenza?
«La paura di perdere i ragazzi spesso
ti gioca contro. Se non avessi provato
così tanto l’ansia del padre, se fossi stato
meno preoccupato, se avessi aspettato
un giorno o due in più… Cosa credi,
ho fatto più di 300 funerali. Ci sono stati
anni in cui ne facevamo 50 o 60. In
certi periodi i ragazzi morivano uno dietro
l’altro».
(La voce di don Antonio si riduce a un
bisbiglio impossibile da registrare. A ferragosto,
nel giro di qualche giorno, sono
morti in tre. La ragazza di 26 anni, «bellissima,
bravissima, impegnata», che si è
lanciata dal decimo piano. Il ragazzo di
33, che hanno trovato nella vasca da bagno.
Il ragazzo di 18, che se n’è andato,
ha bevuto e poi, forse per caso o forse no,
è rotolato in una scarpata con l’auto).
Ti senti in colpa?
«Certo. Perché io qui faccio soprattutto
il padre, solo che al posto di avere 4 figli
ne ho 400. E i ragazzi di tutto il mondo,
non solo i miei della comunità, soffrono
della mancanza del padre. Uno
dei miei grandi pallini è questo: la mamma
mette al mondo il bambino, il padre
mette al mondo l’adolescente, è quello
che aiuta suo figlio a diventare grande.
Poiché oggi simili padri mancano, poiché
manca il traghettatore tra le due stagioni,
i bambini restano sempre bambini.
Quindi, a 80 anni, se dovessi tornare
indietro, chiederei al Signore di farmi fare
ancor più il padre, anche se ho un caratteraccio,
strepito e in fondo sono rimasto
un contadino».
Molti annuiranno con entusiasmo...
Non tutti sanno, però, che tu hai
un’idea un po’ particolare e molto impegnativa,
della paternità. Dici che
un padre che non perdona non è un
padre ma un padrone.
«Vero. C’è chi legge il Vangelo delle
parabole: bello, bello. C’è chi legge il
Vangelo dei miracoli: bello, bello. Ma il
Vangelo più vero è quello di Gesù che
diventa Padre e del Padre che diventa
un pezzo di pane. La nostra fede ha portato
questa rivoluzione nella storia perché
Dio ha fatto quel che ha fatto per
crearci, ma per salvarci si è trasformato
in un pezzo di pane. Essere padre vuol
dire saper perdonare settanta, settecento
volte sette. Essere disponibili a lasciarsi
spezzare per diventare pane».
Da qui, anche, l’accusa che spesso ti
è stata fatta di essere un “perdonista”
di professione. Ogni volta che capitava
qualcosa di orrendo tu saltavi subito
in mezzo a chiedere un gesto di perdono.
Come con Erika e Omar, per fare
solo un esempio...
«Questa storia è cominciata molto
tempo fa, quando dissi a Marco Donat
Cattin di venire in comunità nel momento
in cui lui era l’immagine stessa
del terrorismo. Ebbi una polemica con
Indro Montanelli, secondo lui avrei dovuto
prendere solo i dissociati e non anche
i pentiti. Ma qui il buonismo non
c’entra. È che il perdono non accetta
sfumature: o perdoni o non perdoni. Se
perdoni sei nel Vangelo, se non perdoni
sei fuori. D’altra parte, i nostri figli li salviamo
perdonandoli. Il figlio si aspetta
che il padre, semmai, tiri la sberla. Se lo
perdoni è obbligato a chiedersi: perché
non va fuori di testa? In più, tutte le volte
che ho perdonato mi è andata bene».
Per esempio?
«L’ultimo: una delle ragazze che nel
1999 uccisero suor Maria Laura Mainetti.
Abbiamo avuto un lunghissimo colloquio
anche ieri. Si meraviglia proprio
perché non la giudico, mentre lei non
riesce, in alcun modo, a perdonarsi. E io
le dico: sarai salva il giorno in cui ti perdoni.
Non perché cancelli ciò che hai
fatto, ma perché trasformi la sofferenza
in un progetto di vita».
Roba da cattolici...
«Ma la cultura laica non ha mai capito
niente di questo. Il concetto di perdono
è trasversale alla vita. Una madre
che non perdona il figlio, un marito che
non perdona la moglie, che sia cattolico
o no, non può amare».
Ma secondo te, ti capiscono?
«Lo so, mi considerano un prete superficiale
perché vado in televisione,
frequento i cantanti, mi piace il calcio e
tifo per l’Inter. Ma la gente capisce, eccome.
I raffinati intellettuali non sempre.
È difficile capirmi anche per due ragioni.
La prima è che maschero tutto ciò
che faccio con un tocco di follia. Ho
sempre dormito poco, lavoro 18-20 ore
al giorno, ho scritto di notte tutti i miei
libri. Una notte la settimana la passo in
preghiera, anche perché devo rimettere ordine nell’animo e nella testa. Però lascio dire. Noi veronesi siamo un po’ matti, lo sapeva anche mia madre, ne parlavo sempre con Vittorino Andreoli che con me è stato all’origine di Exodus: questo ci aiuta a non prenderci troppo sul serio e a stare sereni».
E l’altra ragione?
«Credo che noi preti dobbiamo essere più testimoni e meno chiacchieroni. Dobbiamo vivere con i poveri, non per i poveri. La mia tesi è che il Vangelo è l’apologia della scartina. Il primo Papa della Chiesa è stato Pietro, un pescatore qualunque, uno che tradisce Gesù. Il primo ad andare in paradiso è stato il ladrone. Erano scartine i dodici apostoli. Gesù, per i sacerdoti e gli scribi, non eraforse una scartina? Il Vangelo è la storia di Dio che si fa scartina per amore. A 80 anni posso dire che è stata proprio quest’idea a salvarmi».
Non hai la sensazione che il lavoraccio di perdonare sia affidato ai soliti noti, in modo che tutti gli altri possano in definitiva farsi gli affari propri?
«Succede perché la Chiesa non è molto testimone di ’sta roba. Io farei fatica a non perdonare, anche perché è l’idea che ha orientato tutta la mia vita. Noi misuriamo la parola peccato sui Comandamenti. Ma chi sbaglia non fa solo peccato: va contro la natura, sé stesso, la famiglia, gli amici. Io ho impiegato anni ad accettarmi e ce l’ho fatta grazie a un bambino».
Quale bambino?
«Quello che ho incontrato quando avevo vent’anni, nella Città dei ragazzi, dopo l’alluvione del Polesine. Quello che era stato violentato dai suoi. Quello che mi ha fatto diventare il prete che sono. Non so che cosa sarebbe successo di me se fossi nato un po’ più tardi».
Confronto abusivo, serve per capirci: Polesine 1951, Abruzzo 2009. Com’è cambiata l’Italia in questo intervallo che è poi la tua vita?
«Credo che oggi il criterio dominante nella vita degli italiani sia l’egoismo. E quando pensi tanto a te stesso, tutto il resto viene dopo: la famiglia, la maternità, i poveri…».
È una mutazione recente?
«Quando sono arrivato a Milano, nel1979, il problema della sicurezza in città, con il terrorismo e la droga, era molto più grave di oggi. Ma la città era più solidale. Adesso gonfia i problemi e non li affronta, allora aveva problemi enormi ma li affrontava».
Fenomeno milanese o generale?
«Le città che conosco meglio sono queste della dorsale lombardo-veneta. E trovo migliori, pensa tu, le città del Sud. Ho cinque comunità in Calabria e la reputo migliore della Lombardia. La Basilicata, le Marche... Non so se sia perché laggiù non è ancora arrivata questa maledetta voglia di consumare a ogni costo, ma sono posti dove parlare con la gente è più semplice, più vero. Bisogna convincere le persone a liberarsi dalle dipendenze: non solo le droghe, tutte le dipendenze. Perché questa società ti crea un bisogno, quindi una dipendenza, al giorno. È il Vangelo, no? Beati i poveridi spirito, cioè i liberi. I liberi».
È una domanda sciocca ma inevitabile a conoscerti: qual è il segreto per arrivare così in forma agli 80 anni? Avere un sacco di grane?
«Stranamente ho fatto sempre una vita molto...».
Non starai per dire regolare?
«No, ascetica. Ho sempre avuto molto rispetto per me stesso, anche nel corpo. Me l’ha insegnato mia madre. Vengo da una famiglia povera e me lo porto dietro con orgoglio».
Fulvio Scaglione