Zucchero: il mio piccolo mondo antico

Il nuovo album del cantautore emiliano, Chocabeck: in 11 canzoni il gusto e la passione per un’epoca di contadini e sapori genuini e semplici. Il video di "È un peccato morir".

19/11/2010

«Papà, cosa c’è da mangiare stasera? ». «A ghè di chocabeck», rispondeva il signor Giuseppe Fornaciari detto Pino. E la sera qualcosa da mangiare c’era sempre ma Adelmo, che era un bambino, aspettava invano quei chocabeck che riteneva fossero prelibatezze rare. In realtà l’espressione, tipicamente reggiana, stava a significare che in tavola non c’era niente, perché choca significa “qualcosa che fa rumore” e beck vuol dire “becco” che, agitandosi senza niente da masticare, emette una specie di suono prodotto, appunto, da un becco che mastica l’aria.

    Ecco spiegato il titolo del nuovo album di Zucchero, pubblicato contemporaneamente in tutto il mondo e che è stato presentato alla stampa internazionale a Brescello, il paese dove Guareschi ha ambientato gli straordinari battibecchi tra il sindaco comunista Peppone e il parroco don Camillo.

Perché proprio a Brescello?
«Perché io sono nato nell’Emilia dei comunisti e cresciuto nella terra degli anarchici. Mio nonno Roberto, detto “Cannella”, era un mezzadro praticamente “schiavo” del padrone; mio zio Enzo, detto “Guerra”, era una specie di maoista e aveva una parete di libri. Mio padre mi raccontava di una corriera fantasma che il venerdì notte partiva per Mosca e tornava il lunedì mattina e io sognavo che un giorno a quell’impossibile viaggio avrei partecipato anch’io. Ma era un modo di far politica diverso da oggi, senza livori. Quindi quando sono diventato grande la politica non mi ha più interessato».

E anche al tuo paese, Roncocesi, c’era forse una specie di don Camillo?
«Altro che. Lo chiamavamo “don Tagliatella” e la sera, quando ci mettevamo tutti quanti a tavola, c’era sempre qualcuno che mi diceva: “Adelmo, noi siamo qui tutti insieme, non ci manca un cibo sano. Dai, vai da don Tagliatella che è in canonica da solo e magari non ha niente da mangiare”. E allora correvo a portagli delle uova, o un po’ di sformato».

E lui?
«Ringraziava e, sapendo che la musica era la mia passione, mi dava il permesso di suonare l’organo a pedali della chiesa al mattino presto o la sera tardi quando non c’erano i fedeli. In cambio mi trasformò nel suo chierichetto di fiducia. Altri tempi».

    Ecco, in questo prologo di chiacchierata c’è tutto il senso delle 11 canzoni di Zucchero, portiere dei “pulcini” della Reggiana, veterinario mancato per aver lasciato gli studi dopo 39 esami: una serie di flash appassionati che raccontano altrettanti momenti della sua vita, che però non devono esser scambiati per nostalgia o rimpianto, ma piuttosto per una presa di coscienza di quanto il mondo, quel “mondo piccolo” di Peppone e don Camillo, sia cambiato.

    Scriveva Truman Capote, nello straordinario romanzo L’arpa d’erba, che se si potessero mettere in una bottiglia i profumi e le sensazioni dell’infanzia e poi chiuderla ermeticamente, una volta imboccata la parabola discendente della vita, stappandola se ne trarrebbe un grande conforto. Zucchero quella bottiglia evidentemente l’ha conservata e già oggi, che ha compiuto 56 anni (il 25 settembre scorso), l’ha stappata, trasformando il contenuto in 11 belle canzoni che appartengono tanto alla sfera della musica quanto a quella della poesia.

    Lui afferma: «Sono un impiegato della musica: entro in studio al mattino alle 10 e ci sto sino all’ora di cena. Non sono di quelli che, fulminati da un raptus, trovano l’ispirazione nel cuore della notte». E non importa se, come in questo caso, il disco l’ha registrato agli East West a Hollywood. Ascoltiamo il disco e proviamo belle sensazioni: nel primo pezzo, Un soffio caldo (il testo l’ha scritto con l’amico di sempre Francesco Guccini), apre con un lontano vocio di bambini e si arricchisce con versi che dicono: «Un respiro d’aria buona, chiudo gli occhi e sento già che la stagione mia ritrova un soffio caldo, la libertà».

    Spiega Zucchero, «Intendo la libertà di tornare a essere normale, saper ancora godere delle piccole cose, respirare aria buona». Poi c’è Il suono della domenica, il cui testo inglese è stato scritto da Bono, ma che nella nostra lingua, racconta Zucchero, «cerca di rivivere quel silenzio irreale della domenica mattina. Guardavi dalla finestra e il paese era deserto, poi le campane a festa coloravano il cielo con quel suono che ti faceva venir voglia di uscire e correre».

    E ancora un altro tuffo nell’infanzia con Spicinfrin boy: «“Spicinfrin” è un termine dialettale che usava mia nonna Diamante per definire un bambino carino ma piuttosto selvatico, che poi ero io». Sull’onda di quel tempo antico – a volte affiorano versi che rimandano a Giovanni Pascoli – il singolo, scelto per il lancio, È un peccato morir, dice: «Gloria a te nell’aria, quale tu sia, ma è un peccato morir».

È una preghiera?
«Una preghiera, un inno alla vita, agli uccellini che cantano, al sole, alla buona tavola, ai sapori nostrani, alla voglia di vivere per rivivere tutto. Vedi, pur non essendo praticante, la fede non mi ha mai abbandonato».

Gigi Vesigna
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