04/07/2012
Un corteo di protesta contro la crisi economia per le vie di New York (foto e copertina Reuters).
Oggi, 4 luglio, è il compleanno degli Stati Uniti, il 236esimo per essere precisi. E se è vero che i compleanni sono l’occasione per bilanci e consuntivi, quest’anno, in America, ci sarebbe davvero poco da festeggiare. Nel numero speciale che la rivista Time è dedica ogni anno a questa ricorrenza, Jon Meacham parla espressamente di «sogno americano tradito», o meglio della mancanza, come mai prima d’ora, delle condizioni necessarie a realizzarlo.
I dati sono davanti agli occhi di tutti – e dentro i portafogli dei più. La disuguaglianza di reddito tra ricchi e non (ovvero comuni mortali che cercano di sbarcare il lunario) è ai massimi storici, così come la disoccupazione reale che, decimale più decimale meno, continua ad aggirarsi attorno alla triste soglia psicologica del 10%. E come se non bastasse il salario medio delle famiglie - se adattato all’inflazione - è praticamente tornato ai tempi di Bill Clinton.
C’è chi al sogno americano (di cui comprarsi casa è da sempre un elemento fondamentale) o all’eccesso di fiducia in esso, attribuisce la causa scatenante di una crisi che, partita da qui nel 2008, ha travolto l’intero mondo occidentale e non solo. In parte hanno anche ragione. Sta di fatto però, che l’onda lunga di quella bolla immobiliare esplosa, partita da Wall Street, adesso ha completamente allagato Main Street (cioè la strada principale delle città e dei paesini di tutto il continente) dove vivono i John Doe (i Mario Rossi a stelle e strisce) che poco sanno di derivate, obbligazioni e spread ma che in compenso sanno benissimo quanto in un Paese dove è facile - come sempre - perdere il lavoro, adesso sia diventato difficile - al contrario di sempre - trovarne un altro. Con tutto ciò che ne consegue in termini di concessioni (e pagamento) di mutui, assicurazioni sanitarie, costi dell’università sempre più proibitivi e tutto il resto.
Per realizzare il suo postulato «chi lavora duro rispettando le regole avanza, economicamente e socialmente», il sogno americano nato con l’America stessa, «ha bisogno di lavoro» continua Meacham sul Time. Adesso purtroppo il lavoro non c’è. E anche quando c’è, manca la certezza che impegno e serietà siano ancora sufficienti a fare meglio dei propri genitori, così come i genitori fecero rispetto ai nonni, i nonni rispetto ai bisnonni e così via. Appena si diraderanno i fumi dei fuochi d’artficio che stanotte illumineranno ogni angolo di questa enorme nazione, i due candidati alla presidenza cominceranno - e non smetteranno fino al 5 novembre prossimo - a cercare di convincere il maggior numero di americani che il proprio è il programma migliore per ristabilire questa certezza. Anzi come sempre accade anche a chi parte con le migliori intenzioni, non esiteranno a screditare quello dell’avversario. In una campagna elettorale dove l’economia sarà il tema principale, se non l’unico, Obama accuserà Romney di occuparsi solo dei ricchi e Romney accuserà Obama di mettere i bastoni tra le ruote a quelli che lo vogliono diventare. «Non sarà edificante» conclude rassegnato Meacham «ma sarà esattamente questo lo spettacolo a cui assisteremo».
Oggi però i 500,000 accampati sul lungo fiume di Boston (culla della rivoluzione anti-inglese e dunque “sala parto” dell’America moderna), in attesa di sentir leggere la dichiarazione di indipendenza, ascoltare la carica della guerra del 1812 suonata dall’orchestra sinfonica, e infine vedersi mezz’ora di fuochi d’artificio trasmessi in diretta nazionale TV, non si sentono né Repubblicani né Democratici, né ricchi né poveri, né bianchi né neri, gialli, marroncini o quant’altro. Si sentono solo americani, avvolti nelle stelle e strisce (qui il 4 luglio la bandiera si indossa, altro che tirarla fuori solo durante le partite della nazionale!) convinti che in un modo o nell’altro ce la faranno anche stavolta, perché, come dicono qui, «if you can dream it you can do it» (se puoi sognarlo puoi anche farlo). E festeggiano, festeggiano eccome, a Boston come nel resto d’America. Tanto per cominciare, il fatto di essere parte di quella che, malgrado tutto, (spesso compresa la mancanza di reali termini di paragone) chiamano «la più grande nazione del mondo».
Oggi negli Stati Uniti è festa davvero. Anche se quest’anno cade di mercoledì, il 4 luglio non si sposta al lunedì più comodo come succede per una serie di altre feste comandate. Il 4 luglio si chiude tutto, anche ciò che rimane aperto a Pasqua, Natale e Capodanno: ogni nazionalità ha il suo santo patrono, ogni religione ha il suo Shabbat, ma oggi è il compleanno di tutti. Durante tutta la giornata, dal Maine alla California, da Miami a Seattle, si sente solo lo sfrigolio delle griglie e l’odore del propano o della carbonella per alimentarle. Poi, la sera tutti col naso all’insù.
È ovvio che domani, 5 luglio, le angoscianti statistiche sciorinate fino a ieri, 3 luglio, rimarranno invariate, ma oggi è un’occasione per dire, e per dirsi, che tutti insieme possiamo fare qualcosa per invertirle. Il sogno americano va al di là degli indicatori economici del momento, è insito nel DNA di questo popolo e in ultima analisi è ciò che ha reso e che continuerà a rendere grande questa nazione dove la “ricerca della felicità” è un diritto costituzionale, spingendo chi ci abita a impegnarsi, a fare di più, a inventarsi qualcosa di nuovo e continuando ad attirare masse di disperati - e non - che con la voglia di farne parte portano qui energie fresche, idee nuove e, perché no, manodopera (magari illegale) a basso costo. Tutte cose che poi, alla lunga, aiutano anche a invertire le statistiche.
In realtà gli Americani non hanno mai smesso di sognare e non hanno nessuna intenzione di farlo, anche perché sanno (e la storia gli dà ragione) che nel loro caso il sogno contribuisce spesso a migliorare la realtà. Anche a prescindere dal fatto che molti si sono svegliati di botto e rischiano, se continua così, di non riaddormentarsi più.
Stefano Salimbeni