11/12/2012
L'ingresso di una delle sei "case di cartone". Tutte le foto del servizio, copertina inclusa, sono di Nicola Lavacca.
Le “case di cartone” danno un’idea di precarietà, ma per chi vi abita sono l’unico riparo possibile. Siano alla periferia a nord di Bari, tra i quartieri Fesca e San Girolamo. In un’area abbandonata che costeggia i binari della ferrovia e il “canalone” dove scorre l’acqua verso il mare quando piove forte, ci sono le baracche di alcuni stranieri.
E’ il loro modo di vivere, un po’ per scelta forzata e un po’ per l’emarginazione con cui sono costretti a confrontarsi quotidianamente.
Da lontano sembra una piccolo agglomerato variopinto anche se provvisorio e instabile. Quando ci si avvicina è un mondo tutto a sé, una realtà dura che ti prende lo stomaco, non solo per le condizioni igieniche e ambientali che traspaiono non appena cominci a dialogare con questi emigrati del Duemila. Le loro dimore, tra cumuli di rifiuti di ogni genere, sporcizia e fanghiglia, sono state costruite assemblando pezzi di cartone pressato, legname, plastica, vetro tenuti insieme da chiodi, corde e qualche calcinaccio.
I tetti sono alquanto scomposti per le difficoltà oggettive di poter realizzare una struttura uniforme. Le piccole finestre ricavate nei pertugi improvvisati non hanno vetri ma dei fogli di cellophane che al primo tirar di vento sfilano via e lasciano aperto una sorta di spazio incustodito.
Un tetto improvvisato con dei pannelli. Tutta la struttura è tenuta in piedi con materiali di recupero.
Le “case di cartone” sono sei, costruite in serie quasi ci fosse un progetto ben architettato. E il senso di appartenenza di queste famiglie che si sentono unite stando l’una accanto all’altra.
Sono partiti dalla Bulgaria, attraversando la Grecia, fino a raggiungere l’Italia per poi stabilirsi a Bari.
Vivono in dieci in quella che può essere definita l’isola della precarietà. Marian, un tipo robusto sulla quarantina, è approdato sulle coste pugliesi quattro anni fa insieme alla moglie e alla figlioletta Veronica, oggi quindicenne.
Il loro italiano è un po’ stentato, ma riusciamo, nonostante la diffidenza iniziale, a farci comprendere e ad avere delle risposte. “Siamo tutti di Ruse, una città al confine con la Romania, lontana da Sofia 300 chilometri - dice Marian -. Io ero in una ditta che raccoglieva l’immondizia, però con quel lavoro non riuscivo a mantenere la mia famiglia. In Bulgaria i soldi dello stipendio non sono sufficienti nemmeno per mangiare. Così, un giorno ho deciso di lasciare la mia casa e sono partito alla volta dell’Italia. Avevo sentito parlare di Bari, una bella città dove poter vivere e cercare qualcosa da fare. Certo, ero anche consapevole che non sarebbe stato facile inserirsi in una realtà che non conoscevo. Ho trovato questo spazio libero dove stabilirmi con i miei cari. Prima ho utilizzato una roulotte, poi ho messo su una casetta. Non è il massimo, ma almeno abbiamo un tetto sulle nostre teste”.
La cucina di una delle case. I fornelli sono alimentati da una bombola a gas.
Marian ha convinto anche i suoi due amici Ivan e Ian, padre e figlio, a raggiungerlo. Il primo è arrivato a Bari due anni fa, con la moglie e il quattordicenne Nico, mentre il secondo è qui da un anno insieme alla convivente e alla piccola Tania di appena 7 anni.
Ivan, 52enne, sembra il più estroso e intraprendente della compagnia; con la sua insospettabile vena architettonica ha reso un po’ più solide le baracche. “Io a Ruse lavoravo alla manutenzione dei binari della ferrovia – racconta -. Al mese guadagnavo appena 150 euro, ma non bastavano per mangiare. Un panino lì costa un euro e anche se ti ammali, se devi andare in ospedale ci vogliono tanti soldi. Così, ho accolto la proposta di Marian e sono venuto a vivere qui. Sapevo che non sarebbe stato facile trovare un lavoro. Noi raccogliamo il ferro e poi lo rivendiamo. Per ogni chilo ci danno un euro. Io, vado anche al mercato ortofrutticolo; faccio qualche lavoretto di pulizia e rimedio qualche mancia. Capita anche di chiedere l’elemosina, ma non vedrete mai fare una cosa del genere ai nostri bambini che comunque ci aiutano quando possono nel cercare non solo il ferro ma anche indumenti di vario genere”.
Ma a scuola non vanno? “In Bulgaria frequentavano le lezioni - fa notare Ivan - ma qui non c’è alcuna possibilità e ce ne dispiace. Noi siamo brava gente, non diamo fastidio a nessuno, siamo persone semplici che purtroppo hanno dovuto lasciare la loro terra per necessità. Siamo cristiani e crediamo in Gesù. Qui, a Bari, abbiamo trovato il nostro rifugio, ma ci sentiamo isolati anche se qualcuno a volte si ferma per darci qualcosa da mangiare e un po’ di vestiti”.
Il comignolo di una delle stufe presenti nelle "case di cartone".
Ian, 31 anni, è il più giovane dei tre. Anche lui, come il padre, a Ruse lavorava in ferrovia. “Siamo venuti via dalla Bulgaria - afferma con un pizzico di amarezza - perché era quasi impossibile avere un minimo di sostentamento. Mi piacerebbe trovare un lavoro, ma non è semplice avere la cittadinanza italiana. E’ molto difficile che ci sia qualcuno disposto a prenderti, anche per zappare nei campi. Ci arrangiamo con quello che troviamo, con gli spiccioli che riusciamo a mettere insieme”.
Ivan e Marian, ci fanno entrare nelle loro dimore improvvisate che stridono con le palazzine colorate distanti trecento metri, dove comincia la città. Il pavimento è fatto di terriccio. All’entrata ci sono il fornello con la bombola del gas per cucinare, qualche vecchia credenza rimediata qua e là, le taniche dell’acqua, un po’ di generi alimentari.
Subito dopo c’è uno spazio attrezzato che funge da camera da letto, dove campeggia un quadro raffigurante il Cuore di Gesù.
Più in basso altre immagini sacre mentre sull’altro lato è possibile scorgere un crocifisso. “Quando troviamo mobili, sedie e divani abbandonati sul ciglio delle strade - aggiunge Ivan - li portiamo qui e cerchiamo di avere qualche conforto in più. Vedi quelle lampadine sul soffitto? Per accenderle utilizziamo dei piccoli generatori di corrente oppure colleghiamo i fili alla batteria delle auto”.
Ora che siamo in pieno inverno, come affrontate il freddo, il vento gelido, la pioggia? “Rinforziamo i tetti e le pareti e la pioggia non entra” fa notare Ivan. Per riscaldarsi, invece, viene usata una stufa piuttosto originale: nell’incavo di un bidone posto al suolo, collegato ad una canna fumaria, vengono accesi dei pezzi di legno per dare calore. L’arte di arrangiarsi è una prerogativa di questa gente che ha la vita segnata ed un futuro incerto. “Non avevamo scelta, ci accontentiamo di quello che abbiamo e viviamo alla giornata. Ogni tanto qualcuno di noi torna in Bulgaria, ci sono i parenti, le nostre case. Ma, la situazione non è cambiata di molto. Allora, ritorniamo a Bari. Anche nel nostro Paese si festeggia il Natale, ma per noi è un giorno come tutti gli altri”.
Nicola Lavacca