Italia, il calvario dell'Afghanistan

La morte del capitano dei bersaglieri La Rosa riapre il dibattito sull'efficacia di una missione sempre più cara. Non solo in termini di costi economici, ma anche di perdite umane.

09/06/2013
Militari italiani pattugliano la regione di Herat, nell'Ovest dell'Afghanistan (foto Ansa).
Militari italiani pattugliano la regione di Herat, nell'Ovest dell'Afghanistan (foto Ansa).

«La libertà ha un prezzo e il prezzo è anche la vostra presenza attiva qui». Lo ha detto il 4 maggio scorso Mario Mauro, il neo ministro della Difesa in visita al contingente italiano schierato nell'Afghanistan occidentale. Con la morte di Giuseppe La Rosa, 31 anni, capitano del Terzo Bersaglieri, rimasto ucciso l'8 giugno in un attentato nella zona di Farah, il prezzo s'è fatto se possibile ancora più insanguinato: oggi i militari italiani caduti sono 53 in tutto. I feriti, oltre 130. Nell'attacco di sabato 8 giugno sono rimasti  coinvolti altri tre italiani, due dei quali hanno riportato ferite gravi. Preoccupano soprattutto le condizioni del maresciallo capo dei bersaglieri (ottavo reggimento) Giovanni Siero, di Desenzano del Garda, sottoposto a un delicato intervento chirurgico. Ma «nessuno di loro è in pericolo di vita», assicurano dallo Stato maggiore della Difesa.

Le Forze armate italiane partecipano alla missione in Afghanistan da quasi dodici anni.  Il 20 dicembre 2001, infatti, in seguito agli sviluppi della situazione politico-militare in Afghanistan, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva approvato la Risoluzione numero 1.386 con la quale autorizzò il dispiegamento nella città di Kabul e nelle aree limitrofe di una Forza multinazionale denominata International security assistance force (Isaf), con il compito di assistere le istituzioni politiche provvisorie afghane a mantenere un ambiente sicuro, nel quadro degli Accordi di Bonn del 5 dicembre 2001. Invocando quanto previsto dall'articolo 7 della Carta dell'Onu i soldati sono autorizzati a un uso ragionato della forza: possono, insomma, sparare e ingaggiar battaglia se ritenuto necessario. L'11 agosto 2003 la responsabilità delle operazioni è passata nelle mani della Nato.

Dopo esser stati complessivamente anche 4 mila, oggi i militari italiani sul campo sono circa 3.100. 

Il personale militare italiano  presente nell'area di Kabul ricopre prevalentemente incarichi di staff presso il quartier generale di Isaf. Il contingente nazionale di stanza a Herat dal 24 marzo 2013 è al comando del generale Ignazio Gamba, comandante della Brigata alpina Julia. Il Regional Command West (RC-W), la zona sotto la responsabilità italiana, è un'ampia regione dell'Afghanistan occidentale (grande quanto il Nord Italia) che si estende sulle quattro province di Herat, Badghis, Ghowr e Farah. La componente principale delle forze nazionali è costituita da alpini che si muovono su veicoli blindati del tipo Lince e Freccia. Alcuni reparti dei bersaglieri operano invece a bordo dei Dardo. Inoltre è presente un significativo contributo di uomini e mezzi della Marina militare, dell'Aeronautica militare, dell'Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza.

Nel quadro del progressivo passaggio di consegne alle autorità afghane, i militari italiani hanno lasciato diverse postazioni tenute nel passato anche a costo di gravi perdite. Tempo fa è accaduto con una Fob (acronimo Nato che sta per Forward operative base, Base operativa avanzata) costruita nella valle di Mushay dagli alpini sul finire del 2006 a Sud di Kabul e chiamata Sterzing (il nome tedesco di Vipiteno). Questa struttura, strategica per il controllo dell'asse viario Nord-Sud, nell'ottobre 2009 è passata agli afghani. Oggi non si sa se è ancora in mano governativa o se è occupata dagli insorti, termine con cui i comandi alleati chiamano gli elementi ostili, in parte talebani veri e propri, in parte milizie che rispondono ai vari signori della guerra, in parte bande di briganti al servizio dei narcotrafficanti e delle mafie locali.

Mesi fa stessa sorte è toccata al sistema di fortificazioni militari posto al Nord della regione di Herat, nell'area di Bala Murghab. Nel settembre 2012 la consegna agli afghani della Fob Columbus. Nel tempo, paracadutisti, alpini, granatieri, bersaglieri avevano allargato, attorno a Bala Murghab la porzione di territorio messa in sicurezza consentendo il ritorno a casa di molti civili afghani scappati per colpa dei combattimenti. Giorni fa risultava che questa base fosse praticamente sotto assedio e che l'area pacificata a fatica metro dopo metro, giorno dopo giorno, fosse solo un ricordo.

L'avvicinarsi del definitivo disimpegno militare e gli alti costi economici pressoché insostenibili in epoca di crisi specialmente a fronte di risultati come minimo discutibili, moltiplicano le voci che chiedono il ritiro immediato del contingente. Un fronte sempre più ampio invoca il ritorno a casa dei nostri soldati: va da M5S a Sel, dall'Idv a Prc ai Verdi. Alla Lega. In queste ore s'è espresso in tal senso anche il segretario del Carroccio, Robero Maroni. A rispondere, a distanza, è il presidente del Senato, Piero Grasso: non si può, dice, perché "ci sono degli impegni internazionali da rispettare. Questo è prioritario".

Campi di papaveri da oppio in Afghanistan (foto Ansa).
Campi di papaveri da oppio in Afghanistan (foto Ansa).

Intanto, la produzione di oppio in Afghanistan si avvia a crescere per il terzo anno consecutivo. Gli esperti dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il crimine (Unodc) hanno illustrato un quadro drammatico: il mercato è fiorente, tanto da battere i numeri record di quando il Paese era dominato dai talebani. L'Afghanistan è attualmente il maggior produttore mondiale di oppio, materiale base per l'eroina. Nel 2012 ha fornito il 75% della resa globale della coltura, ma con gli aumenti attesi ci si aspetta che arrivi al 90%. «È una situazione molto preoccupante», ha spiegato di recente Ashita Mittal, vice delegato dell’Unodc. «In un mercato altamente speculativo, c‘è un incremento delle coltivazioni e l’Afghanistan rischia di diventare un narco-Stato, a meno che una strategia globale non venga applicata subito».

Il governo afghano si adopera per distruggere le coltivazioni di papaveri. Ma è troppo poco, quando gli agricoltori stentano a trovare alternative per vivere. «Il raccolto del grano», ripetono i coltivatori di oppio, «serve appena per mangiare. Non ci possiamo comprare abiti o altre cose, quello che ci serve per vivere. Quattro chili e mezzo di oppio valgono quanto cinque tonnellate di grano».  Il ritiro delle truppe internazionali, previsto per il 2014, potrebbe portare un’ulteriore impennata del commercio criminale dell’oppio, i cui profitti restano per lo più in mano ai talebani. Gli studi Onu mostrano una correlazione tra l’andamento delle coltivazioni e l’insicurezza nel Paese, oltre che con la mancanza di politiche agricole di sostegno.

Alberto Chiara
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