18/09/2010
Un soldato della missione Isaf di pattuglia.
Dopo la morte del tenente Alessandro Romani, trentesimo sldato italiano caduto in Afghanistan, c’è qualcosa di involontariamente sadico nel seguire queste elezioni
politiche (oggi 2.500 candidati, tra i quali più di
400 donne, si contendono i 249 seggi della Wolesi Jirga, la Camera Alta
del Parlamento) come se fossero elezioni vere, elezioni qualunque.
Mentre tutto sono tranne che questo. All’ombra dell’intervento militare
internazionale, che dura ormai da 9 anni, e dei maneggi della famiglia Karzai
(il presidente, Hamid, si costruisce ville negli Emirati, suo fratello
Ahmed Wali traffica con l’oppio e si fa pagare dalla Cia), la
situazione marcisce di giorno in giorno.
Per rendersene conto, con la brutalità delle cifre, basta leggere il Rapporto che Pino Arlacchi, sociologo, ex vice segretario generale dell’Onu e rapporteur
sull’Afghanistan presso la Commissione Affari Esteri del Parlamento
Europeo, ha preparato nei giorni scorsi.
Quattro i punti chiave:
l’aiuto internazionale; le implicazioni del processo di pace; l’impatto
della formazione delle forze di polizia; l’eliminazione della
coltivazione dell’oppio.
L’AIUTO INTERNAZIONALE: nel periodo 2002-2010
l’Unione Europea (Comunità più Stati membri) ha destinato
all’Afghanistan 8 miliardi di euro. Abbiamo fatto un buon lavoro? Non
si direbbe: dal 2002 la mortalità infantile in Afghanistan è
aumentata; dal 2004 la quota di popolazione afghana sotto la soglia di
povertà è cresciuta del 130%. A questo punto il Rapporto
Arlacchi riserva però una sorpresa. Ci siamo ormai abituati a pensare
che le inefficienze e la corruzione del Governo afghano siano parte
decisiva nella mancanza di risultati. Invece, solo una piccola parte
degli aiuti è passata per i palazzi del potere di Kabul (6 miliardi di
dollari sui 40 versati dagli Usa, per esempio), mentre la gran parte è
stata gestita dalle organizzazioni internazionali. Il consiglio,
quindi, è di convogliare di più gli aiuti verso le istituzioni afghane,
istituendo però dei meccanismi di monitoraggio “concordati sia dai
donatori che dal Governo afghano”.
IL PROCESSO DI PACE: l’Unione Europea deve
continuare a sostenerlo, sapendo però di aver partecipato a un
grossolano errore iniziale di calcolo (la convinzione di una “guerra
lampo”) e di avere di fronte un nemico tenace e quasi inconoscibile.
Arlacchi ricorda che tra i talebani si contano “33 leader, 820 capi di livello medio, 25-36 mila soldati semplici
ripartiti fra 220 comunità”. Per il suo impegno, però, la Ue deve
chiedere al Governo afghano tre precisi impegni: bandire Al Qaeda dal
Paese, eliminare la coltivazione del papavero da oppio, rispettare i
diritti umani fondamentali.
LA FORMAZIONE DELLE FORZE DI POLIZIA: ogni anno
cadono sul campo circa mille poliziotti afghani. Un prezzo enorme per
una forza che è ancora in corso di formazione e che oggi conta 94 mila
uomini, rispetto ai 160 mila che dovrebbe contare entro i prossimi
cinque anni. Ordine e sicurezza, due pilastri della fiducia popolare da
conquistare e consolidare, viaggiano appaiati a ricostruzione e
sviluppo. Un binomio che, in questo campo, è messo in crisi
dall’intervento delle agenzie private a cui, in molti casi, è stata
affidata la formazione dei nuovi poliziotti. Il Rapporto Arlacchi sottolinea che il 90% dei poliziotti è analfabeta e il 20% tossicodipendente (fonti Isaf):
su un vivaio così complicato meglio far lavorare i funzionari e i
militari di Nato ed Eupol e limitare al massimo il ruolo delle milizie
private.
L’OPPIO: citando anche un recente studio dell’Unodc (l’Agenzia Onu per lotta al narcotraffico e al crimine organizzato), il Rapporto ci sbatte sotto gli occhi una realtà di cui dovremmo prendere coscienza: solo il 4% del commercio di stupefacenti dall’Afghanistan può essere attribuito ai talebani, e il 21% agli agricoltori locali. Il
resto, cioè il 75% del giro d’affari del Paese che produce il 90%
dell’oppio mondiale, è opera di “funzionari governativi, polizia,
mediatori locali e regionali nonché trafficanti”. Insomma, per ripulire
l’Afghanistan dall’oppio dovremmo prima spazzare in casa nostra. E poi
giocare la carta delle colture alternative (per esempio lo zafferano,
che rende anche più del papavero), con un piano quinquennale di
diffusione da finanziare con 100 milioni di euro l’anno. Tanti soldi?
No, una “mancia” rispetto ai quasi 2 miliardi di dollari spesi finora
da Usa e UE per combattere, senza alcun successo, la coltivazione del
papavero.
Come si vede, l’analisi di Pino Arlacchi presuppone un coordinamento
leale ed efficace tra i Paesi donatori e, soprattutto, tra le due
grosse entità attive in Afghanistan: gli Usa e l’Unione Europea. Gli
anni ci hanno ormai abituati a considerare tutto questo una specie di
libro dei sogni. Ma non c’è alternativa: o lo sforzo si fa congiunto e
mirato o continueremo a organizzare elezioni come quella di domani,
destinate a sollevare speranze che non verranno esaudite.
Fulvio Scaglione