10/06/2013
«Gli uomini, nei confronti delle donne sono violenti. Il problema è che, mentre si può prevenire la violenza, è molto difficile riconvertire un uomo violento». La regista romana Francesca Archibugi, “investigatrice delicata del cuore della gente”, come la definisce Lietta Tornabuoni, affronta una nuova sfida in vista del 25 novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne: indagare l'animo dell'uomo maltrattante. Lo fa con lo strumento del documentario, forte della precedente esperienza, Giulia ha picchiato Filippo, realizzato grazie alla collaborazione delle volontarie dell'associazione “Differenza donna” e dei centri antiviolenza romani.
-La sua affermazione iniziale non lascia molto spazio alla speranza.
«Avevo anch'io l'idea del recupero e della rieducazione, poi, frequentando le operatrici, mi sono resa conto che c'è proprio una struttura di uomo violento, sulla quale è molto difficile intervenire. Non è detto che sia impossibile, ma bisogna rendersi conto delle difficoltà. E non c'è una colpa totalmente maschile. Perché ogni uomo ha una madre, magari delle sorelle, e delle insegnanti che lo hanno educato. Un contesto che in certi casi avrebbe potuto riconoscere la situazione di pericolosità che si andava delineando; purtroppo, nell'animo delle donne c'è una grande componente antifemminista».
- Lei ha sottolineato la presenza di una cultura “giustificazionista”...
«Certo, basta leggere i giornali. Si parla quasi sempre di raptus, che c'è, esiste, ma, per la maggior parte dei casi, l'omicidio contro una donna (all'interno delle mura domestiche) è l'apice di una violenza reiterata, anche per anni. Comprendere non vuol dire giustificare; invece, spesso la cultura “giustificazionista” si sovrappone alla comprensione. Tutti noi tendiamo a smarrire delle certezze davanti a un'analisi più approfondita della psiche. Non sappiamo sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato. E questo è il più grande alleato dell'uomo contro la donna, perché non è detto che quello che stanno facendo è male. Allora, a un certo punto, bisogna districarsi dalle leggi psichiche per entrare in quelle morali, come diceva Kant».
- Nei suoi film influisce la sua esperienza di vita?
«No, io ho avuto una vita molto pacifica. Però ho sempre un grande interesse per la realtà che ci circonda, cerco di stare con gli occhi aperti. Nei miei film c'è tutto il mio interesse narrativo».
Francesca Archibugi (foto Iannone).
- Dodici anni fa, lei ha girato Domani, un film sull'Umbria
devastata dal terremoto del 1997, dove emerge la gravità di una
catastrofe, che si è ripetuta nel '99 in Abruzzo.
«Quel film vinse il primo premio al festival di Tokyo, dove di
terremoti se ne intendono. Dal dibattito dei giapponesi ho capito come
la nostra reazione al terremoto sia una reazione del tutto primordiale e
tribale. Alla conferenza stampa, i giornalisti mi chiesero: ma è mai
possibile che vi prenda sempre di sorpresa? Quando nel '99, mi sono
recata all'Aquila, ho rivolto alla gente la stessa domanda: ma è
possibile che ci prenda sempre di sorpresa? Dieci anni dopo, a cento
chilometri in linea d'aria, sulla stessa faglia, sulla stessa dorsale
appenninica. Ti viene da pensare che fra dieci anni risuccederà».
- Com'è stata accolta la telecamera prima, e il film dopo, da quanti sono stati, loro malgrado, protagonisti?
«Girare Domani, che ho poi portato a vedere nelle baraccopoli,
è stato controverso. Le persone magari più semplici avrebbero voluto un
ritratto idealizzato, mentre invece io ho cercato di raccontare quant'è
difficile la democrazia, com'è difficile andare d'accordo, come la
politica sia l'arte del compromesso. E c'è politica lì, perché bisogna
decidere se abbandonare, se ricostruire, dove, con che criteri...
Bisogna cercare di mettere insieme dei cittadini che spesso non sono
d'accordo. Ho scelto di fare un film molto corale, dove ognuno credeva
fortemente nella sua idea. Da alcuni è stato accolto con disagio, ad
altri è piaciuto. Tuttavia, resta il fatto che il film ha messo le
persone nella condizione di poter dire la loro».
- Come si coniugano un linguaggio semplice e una visione alta?
«È tutta lì la bravura del regista, e non sempre ci si riesce. La
semplicità è un punto di arrivo, non di partenza. Noi registi siamo a
tutti gli effetti dei narratori e ci assumiamo la responsabilità del
tono usato, del linguaggio, delle sfumature, di come raccontiamo le
cose».
- In Giulia ha picchiato Filippo, dopo la prima parte con
le testimonianze di donne maltrattate, c'è un episodio con i bambini.
Com'è lavorare con i piccoli attori?
«È molto faticoso, perché i bambini hanno bisogno dei loro tempi.
Come diceva Truffaut, “girare con i bambini è faticoso come girare con
un elicottero”. Perché devi montarci la macchina da presa, fare le
prove, le pale magari fanno rumore... Però, poi, quando va, voli, e fai
delle riprese bellissime».
Romina Gobbo