13/11/2010
Aung San Suu Kyi nella villa-prigione in cui ha vissuto agli arresti.
Sorride, con il suo volto delicato e lo sguardo gentile, e si commuove Aung San Suu Kyi, acclamata da una folla festosa radunata fuori della sua villa-prigione a Rangoon, la capitale birmana, dove lei per anni è vissuta isolata, tra meditazione e preghiera. Quindici degli ultimi ventun'anni trascorsi in detenzione (divisi in tre periodi, a partire dal 1989), sette anni consecutivi di arresti domiciliari fino a oggi; ma ora, finalmente, la liberazione sognata, attesa con pazienza e determinazione. La donna che ha sfidato la temibile dittatura militare del suo Paese, la Birmania, attraverso il metodo della non-violenza ha ottenuto quel rilascio che, da tempo, tutto il mondo chiedeva a gran voce.
La pressione della comunità internazionale, in effetti, ha giocato un ruolo determinante nella decisione delle autorità di liberare la 65enne Aung San Suu Kyi. La Birmania è sotto i riflettori del mondo: le elezioni parlamentari che si sono svolte nel Paese asiatico solo alcuni giorni fa, le prime indette dopo vent'anni, sono state bollate senza appello dai Paesi occidentali come una farsa (l'80% dei seggi sono andati al partito legato alla giunta che si è assicurata altri cinque anni di potere). E il presidente americano Barack Obama non ha esitato a esortare con forza le autorità birmane a liberare Aung San Suu Kyi, il cui partito di opposizione, la Lega nazionale per la democrazia, è stato sciolto dopo avere deciso di boicottare il voto.
Figlia di un generale ed esponente politico, studi in India, in seguito a Oxford e poi New York, Aung San Suu Kyi respirò l'aria dell'attivismo politico fin da ragazzina. Ma nella sua formazione molto determinante si rivelò il ruolo proprio di un'altra donna forte, sua madre, che dopo l'assassinio del marito (quando Aung aveva solo due anni) diventò un'importante figura politica e in seguito ambasciatrice in India. Seguendo sua madre la giovane Aung si appassionò di politica; e in India sposò gli insegnamenti di Gandhi, accostandosi alla non-violenza come strumento di lotta per la democrazia.
Rientrata in Birmania, nel 1988 fondò la Lega nazionale per la democrazia; ma nel 1989 venne arrestata per la prima volta. Quando le venne offerto di lasciare il Paese, lei scelse la strada più dura: restare in patria, continuare a lottare per riportare la Birmania sulla strada della democrazia, consapevole che questo significava rinunciare alla sua libertà. In questi anni non le è mai stato concesso di viaggiare all'estero (perché avrebbe comportato per lei l'impossibilità di rientrare in Birmania), nemmeno quando suo marito Michael Aris - noto studioso di culture del Buthan, Tibet e Himalaya e docente a Oxford - si ammalò di tumore (e morì nel 1999).
In tutto questo tempo, la voce di Aung San Suu Kyi non è rimasta inascoltata. Nel mondo il suo sacrificio e la sua lotta sono diventati simbolo di chi percorre la strada verso la democrazia e la libertà rinunciando alla violenza; nel 1991 la leader birmana è stata insignita del Premio Nobel per la pace: i suoi figli Alexander e Kim sono andati a riceverlo a Oslo per lei. Un anno dopo, la politica ha annunciato di devolvere il premio, 1,3 milioni di dollari, alla costituzione di un fondo per la sanità e l'istruzione in Birmania.
La liberazione di Aung San Suu Kyi accende la speranza di un cambiamento, una svolta nella Birmania blindata da una dittatura che da più di vent'anni esercita sul Paese un controllo rigidissimo, mortificando lo sviluppo economico e lasciando la maggioranza della popolazione in uno stato di miseria (si stima che nel 2007 il 33% della popolazione era sotto la soglia della povertà). Ora, poi, c'è la questione degli altri prigionieri politici e di coscienza: Amnesty international ricorda che in Birmania ce ne sono attualmente più di 2.200, "condannati sulla base di norme vaghe, utilizzate sovente per criminalizzare il dissenso politico e detenuti in condizioni agghiaccianti". Un monito affinché la comunità internazionale non si dimentichi di loro.
Giulia Cerqueti