03/12/2010
Aung San Suu Kyi durante la Giornata mondiale per la lotta all'Aids
In Birmania non c'è spazio per le illusioni. Dopo la liberazione di Aung San Suu Kyi, leader dell'opposizione democratica, sotto la pressione della comunità internazionale, di fatto poco cambia nella politica della dittatura militare al potere nel Paese asiatico da vent'anni. Suu Kyi, finalmente libera dopo sette anni consecutivi di arresti domiciliari (15 degli ultimi 21 anni trascorsi in stato di arresto), ha potuto stringere tra le sue braccia, in un commovente incontro all'aeroporto di Rangoon, il figlio minore, Kim Aris (il più grande si chiama Alexander), che non vedeva da dieci anni.
Ma la giunta militare non allenta le sue misure repressive e continua a controllare tutti i movimenti che ruotano attorno alla leader della Lega per la democrazia e le manifestazioni in suo favore. Un paio di settimane fa le autorità hanno ordinato la sospensione delle pubblicazioni a nove riviste che avevano dedicato ampio spazio alla liberazione di Suu Kyi, contestando loro di non aver rispettato le regole.
Ma la repressione della giunta non si ferma alla stampa. Alcuni giorni prima, Aung San Suu Kyi aveva visitato a Rangoon un centro medico per la cura dei malati di Aids, dove la leader dissidente era stata accolta da un bagno di folla. Un entusiamo che è stato immediatamente punito. Il giorno successivo, infatti, la giunta militare ha deciso di chiudere la clinica, rendendo noto a dirigenti e personale medico che i permessi mensili non sarebbero stati rinnovati. Adesso, i pazienti si trovano in mezzo alla strada. Una volta venivano accolti e curati nei monasteri buddhisti. Poi, dopo la protesta dei monaci del 2007, le autorità hanno revocato il permesso ai monasteri di ospitare i malati di Aids. Secondo l'agenzia Onu per la lotta all'Aids, in Birmania le persone affette dal virus sono 240mila.
Giulia Cerqueti