Siria, la stagione delle bombe

Damasco, Aleppo... Le grandi città della Siria sono colpite da un'ondata di attentati. Difficile credere, però, che sia Assad a organizzarla.

19/03/2012
Bashar al Assad con la moglie Asma (foto del servizio: Ansa).
Bashar al Assad con la moglie Asma (foto del servizio: Ansa).

Qualunque ragionamento suoni a parziale discolpa di Bashar al Assad provoca legittimo disgusto. Bisogna però ugualmente ammettere che, rispetto ai recenti attentarti che hanno colpito Damasco e Aleppo, convince poco la “narrazione” dell’Esercito libero e del Consiglio Nazionale Siriano, cioè di coloro che si contendono la guida della rivolta. Secondo loro, sarebbe lo stesso regime di Assad a organizzare gli attentati, per terrorizzare ancor più un popolazione già colpita in modo violentissimo (almeno 8 mila morti e 70 mila detenuti in un anno) dalla repressione del regime.

Quella versione convince ancor meno dopo l’attentato di ieri, ad Aleppo, nel quartiere di Al Suleimaniya, abitato in prevalenza da cristiani. Intanto, come tutti hanno notato, gli attentati vengono regolarmente compiuti nelle grandi città, cioè in quelle che sono le “piazzaforti” del regime alawita fin da quando, nel 1970, Hafez al Assad, padre di Bashar, mise a segno il suo colpo di Stato. Qual è il tiranno che si dà la zappa sui piedi in quel modo? Chi può pensare di terrorizzare Homs, già massacrata coi bombardamenti, facendo ammazzare decine di persone a Damasco, com’è successo nei giorni scorsi?

Ma ci sono anche altre considerazioni. I cristiani, in Siria, formano circa il 10% della popolazione. Ai cristiani autoctoni vanno aggiunti quelli arrivati qui dall’Iraq, dopo l’invasione americana del 2003 e la caduta di Saddam Hussein, in cerca di rifugio e di pace: circa il 15% del milione e mezzo di persone che ha attraversato il confine. Li si trova su entrambi i lati della barricata, contro Assad o pro Assad, ma nel complesso non si può dire che siano la comunità più esposta nel criticare o attaccare il regime.


Questo accade non certo perché siano complici di Assad o condividano la sua politica, soprattutto adesso. Ma è una realtà inconfutabile che per i cristiani la Siria è stata, negli ultimi decenni, un Paese assai più tollerante di quasi tutti gli altri del Medio Oriente. In poche parole: oggi i cristiani temono una transizione che nel peggiore dei casi porterebbe a uno scenario di tipo iracheno e nel migliore comunque a una radicalizzazione delle posizioni come in Egitto.

Da questo punto di vista sono emblematiche le parole che il patriarca cristiano maronita del Libano, Bishara Boutros al-Rai, ha di recente pronunciato: “Abbiamo dovuto sopportare il dominio della Siria, non l’ho certo dimenticato”, ha detto, ricordando i 29 anni di occupazione siriana del Libano, “ora non appoggiamo il regime ma temiamo il possibile futuro. Dobbiamo difendere la comunità cristiana. Anche noi dobbiamo resistere”.


Considerato tutto questo, possiamo credere che un leader già disperato come Assad corra il rischio di inimicarsi una comunità tutto sommato imparziale come quella cristiana, facendo mettere bombe proprio nel quartiere cristiano di una delle città più importanti della Siria? Tutto è possibile, in situazioni come quella e con gente come Assad e i suoi scherani. Ma c’è una bella differenza tra considerare Assad un dittatore nefasto e prenderlo per uno stupido.

Se il ragionamento ha un senso, bisogna allora chiedersi chi stia organizzando tutti quegli attentati. Ammesso che possano essere così crudeli e spietati, né l’Esercito Libero (impegnato soprattutto in azioni di guerriglia nelle province meno centrali) né il Consiglio Nazionale Siriano sembrano in grado di mettere a segno un’offensiva così articolata e profonda. Possono esserne partecipi, fornire l’intelligence e qualche appoggio interno al Paese, ma non gestirla in proprio.

Quindi c’è qualcuno, in Siria, che non è siriano e combatte contro Assad. Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, i Paesi sunniti del Golfo Persico che puntano a indebolire l’Iran abbattendo il suo più prossimo alleato? La Turchia, per diventare il Paese leader della regione? E chi li aiuta? Tante domande e poche risposte. Per ora, almeno.

Fulvio Scaglione
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