08/02/2011
Il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi.
Era un po’ che non si sentiva parlare del ministro Brunetta, e spiace che dopo la temporanea eclissi la sua rentrée non sia propriamente trionfale. Doveva riformare l’amministrazione pubblica ma anche lui, malgrado le buone intenzioni, sta alzando bandiera bianca. Magari ci spiegherà che non è vero, anzi vivremo presto nel migliore dei mondi possibili. Se comunque dovrà realmente arrendersi, come i giornali danno ormai per certo, sappia che merita tutte le attenuanti. Specie da chi, per età o buona memoria, ricorda certi tentativi del passato.
Uno per tutti. Correva l’anno 1962 e la Dc teneva a Napoli uno dei suoi più importanti congressi. Si alzò a parlare Fanfani, primo ministro in carica e destinato da Moro a dirigere anche la svolta per far entrare i socialisti, come disse Nenni, nella “stanza dei bottoni” (poi Nenni scoprì a sue spese che la stanza c’era, i bottoni no). In quell’epoca, un po’ come oggi per il federalismo, la parola d’ordine era “programmazione”. Non più una politica alla giornata ma una serie di indirizzi coordinati, tali da rendere duraturo il boom economico e sociale del decennio precedente.
Grande prospettiva, disse dunque Fanfani, ma a una condizione. O si riformava in concreto l’apparato statale, depurandolo dalle incrostazioni e dalle resistenze burocratiche, o non si programmava un bel niente. L’assemblea, in piedi, acclamò. A scuotere il capo furono pochi scettici, che invece di unirsi al generale entusiasmo parlarono di scommessa perdente. Purtroppo, avevano ragione. Non solo fallì il progetto di riforma, e tramontò di conseguenza la programmazione, ma nel mezzo secolo successivo l’apparato pubblico si arricchì (e continua ad arricchirsi) di nuove sedimentazioni. Strati geologici a loro volta inamovibili: quelli che appunto Brunetta voleva, se non portar via col bulldozer, per lo meno scalfire.
La prima idea del ministro, come premessa di successivi interventi, era di premiare i dipendenti più meritevoli, trovare i fondi necessari, far giudicare il personale pubblico da organi esterni e indipendenti, metter fine in sostanza alla comoda prassi secondo cui i controllori si identificavano con i controllati. Beh, come non detto. Zitti zitti, senza che nemmeno la stampa se ne accorgesse, i controllati hanno fatto fuori la stessa idea di possibili controllori. Al loro posto le solite commissioni paritetiche, cioè rappresentanti dell’amministrazione e rappresentanti dei sindacati, che nel comune interesse alzeranno insieme i calici. Funzionari bravi e funzionari incapaci o dannosi, permarrà il medesimo trattamento egualitario. Tutto come prima. Per i volonterosi, del resto, non ci sono soldi. Neanche per brindare a Brunetta e Fanfani, o ad altri che in futuro, come loro, nutrissero temerarie illusioni.
Giorgio Vecchiato