05/10/2011
Don Antonio Mazzi, fondatore della Comunità Exodus.
Vi sono storie nelle normali vicende quotidiane
che esplodono inspiegabilmente
e lasciano profonde cicatrici sulla pelle
della storia stessa. Una è quella di Erika con
il matricidio e il fratricidio. Sono passati undici
anni e la ferita sociale non rimargina. Mancano
pochi mesi alla scarcerazione e li sta
scontando in una delle mie comunità lavorando,
riflettendo, piangendo e sorridendo.
Perché le cose inspiegabili che più spiazzano
sono il suo volto, il suo sorriso e la sua gentilezza.
Se un volto simile può uccidere, quanti
potrebbero fare quello che lei ha fatto, spiazzandoci
e terrorizzandoci?
Comunque le mie riflessioni sono altre e
partono dalle pesanti allusioni e dichiarazioni
della gente: perché perdonare, aiutare, seguire,
credere, in un’assassina perversa?
Non va lasciata dentro a marcire, buttando
la chiave? Credo di no.
E lo credo perché ognuno di noi, dentro potenzialmente
è Caino e Abele. Voi direte che c’è
Caino e Caino. Uccidere madre e fratellino non
lo avrebbe fatto nemmeno chi ha ucciso Abele.
Non è vero. Nei raptus non c’è limite. Il bene e
il male giocano misteriosamente, trasformandosi,
sublimandosi, scatenandosi bestialmente.
Il nostro corpo è un contenitore fragile per
l’infinito che porta dentro.
Erika De Nardi
Non voglio con questo giustificare i misfatti.
Voglio solo domandarmi perché io, molto
peggiore di lei da piccolo e da adolescente, ho
sentito dentro di me trasformarsi, in una
straordinaria e rischiosissima avventura positiva,
quello che sarebbe potuto essere un disastro.
Già a 14 anni ho cercato il suicidio.
Nessuno è irrecuperabile, come nessuno è
santo per decreto divino. Non ho mai domandato
né a me né a lei di perdonare e di perdonarsi.
È importante per lei riparare le lacerazioni
profonde, la voragine di dolore, per poi
capire. Quando? Come? Non lo so. La seguo
da dieci anni e sono convinto che nessuna diagnosi
psichiatrica e psicoanalitica arriverebbe
a toccare il fondo di quest’anima.
Qui non si tratta di attaccare cerotti, di ricostruire
parti di sé, di ridisegnare triangoli mal
riusciti. Qui o si rinasce o si piomba nella tempesta
omicida. È il nostro “mestiere”. Perché
Erika non è il caso, ma la prima parte di una
storia. Lì dentro va progettata, con umiltà, pazienza,
con animo scevro da pruriti scientifici,
la seconda parte della storia stessa.
La sfida è crederci. Riparare i mali che facciamo,
anche noi normali, occupa metà della
nostra vita. L’altra metà la consumiamo nella
speranza di essere capiti e perdonati.
Se lo capirà, la voragine di dolore si trasformerà
in un enorme ulivo e la farà rifiorire.
Questi misfatti devono servire a noi per interrogarci,
per giudicare di meno e per guardarci
dentro, alla ricerca di quell’Abele che sappia
abbracciare il fratello Caino, mentre lo sta sacrificando.
Perché l’amore non ha sponde!
Il guaio è che noi non siamo Abele. Troppo
conciliante, troppo umano! Non siamo nemmeno
Caino! Siamo solo guardoni (vedi ultimo
numero di Panorama).
Don Antonio Mazzi