10/05/2011
Una messa copta di suffragio per le vittime degli scontri con i musulmani salafiti.
Il quartiere di Imbaba, al Cairo, è una roccaforte dei copti e dei
cristiani in genere. Nel giro di qualche isolato si raggruppano cinque
chiese copte e tre chiese anglicane. Inevitabile, quindi, che finisse in
prima linea negli scontri tra i copti e gli estremisti salafiti che da
mesi chiedono la liberazione di Kamilia Shehata. Si
tratta della moglie di un sacerdote copto che, secondo una vulgata
diffusa tra i musulmani, si sarebbe convertita all’islam e per questo
sarebbe stata sequestrata nella chiesa poi attaccata.
Un ennesimo episodio di violenza che rimanda alla discriminazione ai
danni della corposa minoranza copta (il 9% degli 80 milioni di abitanti
dell’Egitto), alla cancellazione di una parte importante della storia
egiziana, alla pratica di una lunga dittatura (quella di Hosni
Mubarak) che si è retta anche coltivando i pregiudizi e i
rancori della maggioranza islamica. Viene però da chiedersi quale fosse
il reale obiettivo degli strateghi islamisti che hanno lanciato una
folla armata contro la chiesa copta.
Detto in altre parole: perché scontri come questi (12 morti
almeno) non si sono avuti nelle settimane della rivolta di piazza
Tahrir, quando la polizia non metteva il naso nelle strade?
Perché proprio adesso, quando il rischio è assai più alto? Non
dimentichiamo che il Governo, guidato dal primo ministro Issam
Sharaf in nome e per conto della giunta militare, ha fatto
arrestare più di 200 persone e ha annunciato che applicherà ai
responsabili dei tumulti le leggi anti-terrorismo.
Soldati egiziani di guardia alla chiesa copta del Cairo assaltata dai salafiti.
La "svolta" dei Fratelli Musulmani
Usando i copti come facile capro espiatorio, i salafiti in realtà
mirano ad altro. In particolare, all’accordo che potrebbe
profilarsi tra le due forze oggi più influenti nel Paese: l’esercito e i
Fratelli Musulmani. L’esercito si è preso sulle spalle la
responsabilità del cambiamento, indicando a Mubarak la via dell’esilio e
impedendo ai suoi più stretti collaboratori (per primo il generale
Suleiman, per 12 anni capo dei servizi segreti) di uscire dalla porta
per rientrare dalla finestra. Ma l’esercito è a propria volta un’élite,
una casta: i suoi uomini sono dei privilegiati, sotto il suo controllo
si trovano aziende di ogni genere e tutti e quattro i presidenti
egiziani dal 1952 (da quando fu liquidata la monarchia costituzionale)
sono usciti dalle sue file.
Nelle strade e soprattutto nelle campagne, invece, i Fratelli
Musulmani contano di più. Nei giorni della rivoluzione di
piazza Tahrir la loro leadership ha tenuto a mostrare moderazione e amor
di patria. Ha appoggiato le decisioni della giunta militare. Una volta
cacciato Mubarak, ha invitato i propri militanti a tornare alle case e
al lavoro e a interrompere le dimostrazioni. Al referendum
costituzionale del 19 marzo, promosso dal Governo provvisorio
controllato dall’esercito, i Fratelli Musulmani si sono espressi
per il “sì”, e il referendum è passato con il 77% dei
consensi. Infine, hanno accettato senza batter ciglio la promulgazione
di leggi (per prima quella del 30 marzo, che vieta i partiti costituiti
su base religiosa o regionale) che sembrano più tipiche dell’Egitto di
Mubarak che di quello attuale, che si vuole diverso.
Insomma, hanno fatto di tutto per accreditarsi agli occhi dei militari come un partner politico moderato e affidabile.
Una manifestazione di protesta dei copti del Cairo.
La spartizione del potere
Quello che si delinea all’orizzonte, insomma, è un accordo
tra militari e Fratelli Musulmani per la spartizione del potere e
per avviare l’Egitto sulla strada di uno Stato islamico che si vorrebbe
moderato e che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe seguire le orme
della Turchia. Molti pensano che i generali, abituati a contare molto ma restando dietro
le quinte, potrebbero mandare avanti l’attuale primo ministro, Issam
Sharaf, politico di non enorme personalità, farlo eleggere presidente e affiancarlo con un vice che, guarda
caso, sarebbe un ex generale. Per esempio Sami Inan, attuale
capo di Stato maggiore dell’Esercito. Ai Fratelli Musulmani
andrebbero, in quel caso, ministeri e incarichi di prima grandezza.
Proprio questa prospettiva fa infuriare i musulmani legati
all’estremismo, che rifiutano qualunque prospettiva che non sia l'instaurazione di uno Stato islamico duro e puro. Al Qaeda, in uno dei suoi recenti pronunciamenti, ha
denunciato i Fratelli Musulmani come “secolarizzati e falsamente fedeli
all’Islam”. La loro alleanza con i militari è il vero obiettivo dei
terroristi ma anche di coloro che agitano le pattuglie violente dei
salafiti.
Fulvio Scaglione