22/06/2011
Un corteo di protesta di cristiani copti al Cairo.
Nei pressi della cattedrale di San Marco, nel popolare quartiere di Abbassya, la tensione è palpabile nell’aria. L’esercito presidia il grande quadrilatero che comprende, oltre alla cattedrale, la residenza di papa Shenouda III, la sede del Santo Sinodo e il moderno Centro culturale copto, un enorme edificio che si prefigge di custodire l’identità del cristianesimo copto dentro e fuori il Paese.
Chiuso l’accesso principale, alla cittadella copta, una sorta di piccolo Vaticano cairota, si accede da una via laterale che è stata dotata, dopo le stragi nelle chiese copte di Alessandria e del Cairo, di una batteria di metal detector. Mentre già dalla mattinata intere famiglie sono in fila dietro alle transenne e si sottopongono pazienti ai controlli, gruppi di giovani entrano ed escono dalle cappelle del seminterrato profumate d’incenso. Alcuni monaci, con il tradizionale copricapo a cuffia, salgono frettolosi i gradini dell’edificio che ospita la facoltà teologica. Nel pomeriggio si terrà la tradizionale udienza di Shenouda, l’occasione per raccogliere il popolo cristiano del Cairo ma anche per fare il punto sulla situazione che i copti stanno vivendo nell’Egitto post-rivoluzionario.
Un gruppo di salafiti egiziani.
L'irruzione dei salafiti
«Alcune delle nostre richieste sono state ascoltate, altre sono allo
studio. Ci aspettiamo che le nostre istanze vengano prese in esame»,
spiega abuna Yusuf, un giovane e dinamico sacerdote che si occupa della
pastorale universitaria. Ma le parole, seppure accompagnate dal sorriso,
non riescono a velare la preoccupazione per una stagione iniziata con
grandi speranze e sempre più turbata da sangue e violenze. La verità è
che nell’Egitto del dopo-Mubarak, nato sotto la stella della
collaborazione e dell’unità tra cristiani e musulmani, la relazione tra
le due componenti religiose si va facendo sempre più problematica, anche
e soprattutto per l’improvvisa irruzione sulla scena dei salafiti, una
fazione dell’islam fondamentalista e violento.
"In alcuni sobborghi,
come quello di Imbaba", spiega Samir, la cui famiglia proviene dall’Alto
Egitto, "quasi tutti i cristiani posseggono un’arma, pronti a
difendersi o colpire. Ci sono giovani disposti a difendere il proprio
quartiere, la propria casa, la propria chiesa, fino alle estreme
conseguenze".
"Noi vogliamo la libertà, vogliamo partecipare alla
costruzione dell’Egitto di domani. Ma ci sentiamo insicuri e dobbiamo
difenderci", interviene Butros, occhiali da intellettuale e libri
sottobraccio: "Prima c’era la polizia di Mubarak. C’era la dittatura,
ma i movimenti islamisti erano tenuti a freno. Oggi le strade sono piene
di salafiti e noi non possiamo più subire".
"Prima questi fanatici
erano in carcere", si accalora Yvonne, vent’anni e una croce tatuata sul
polso: "Ora sono liberi, insieme a delinquenti e tagliagole fuggiti
dalle prigioni. Ieri uno di questi cosiddetti musulmani pii mi ha urlato
ad una fermata degli autobus: “Dite di essere venti milioni? Noi siamo
sessanta: vi uccideremo tutti”". Yvonne, come molti suoi amici
universitari, ha partecipato nelle scorse settimane (sfidando le retate
dell’esercito) alle proteste dei copti davanti alla sede della
televisione di Stato, nell’elegante quartiere di Maspero, un sit-in di
13 giorni nato come forma di protesta dopo la strage di Imbaba,
città-satellite del Cairo.
Cristiani copti rifugati in una chiesa del Cairo durante i disordini dello scorso Natale.
La strage di San Mena
Qui alcune centinaia di salafiti hanno
assaltato all’inizio di maggio la chiesa di San Mena al cui interno,
secondo voci fatte circolare ad arte, sarebbe stata trattenuta a forza
una donna convertita dal cristianesimo all’islam. Bilancio: 11 morti e
oltre un centinaio di feriti. Tra le richieste dei manifestanti copti a
Maspero, la promulgazione di una legge che conceda la possibilità di
edificare nuovi luoghi di culto cristiani (cosa oggi difficilissima se
non praticamente impossibile), una norma contro la discriminazione dei
non musulmani nell’amministrazione pubblica e nei luoghi di lavoro, la
riapertura delle chiese chiuse dopo gli incidenti interconfessionali, ma
soprattutto l’arresto e un processo rapido per i mandanti delle stragi e
delle violenze che dall’inizio di quest’anno hanno duramente colpito le
comunità copte dell’Egitto.
"Si capisce la paura dei cristiani in
Egitto", spiega abuna Antony, frate minore del popoloso quartiere del
Muski. "Siamo convinti di poter rivestire un ruolo chiave nella
nascente democrazia egiziana, ma intanto cresce tra i giovani anche la
voglia di andarsene, di fronte all’instabilità politica e alla mancanza
di lavoro. C’è molta attesa per le elezioni di settembre, dalle quali
dovrà uscire il Parlamento chiamato a scrivere le regole del nuovo
Egitto. Ma crescono anche i timori per l’esito di questa consultazione,
di fronte alla disorganizzazione dei partiti, che non sono affatto
preparati alla tornata elettorale. Nelle moschee e nelle madrasse
l’islam più radicale si sta organizzando da tempo… Gli adepti della
confraternita dei Fratelli musulmani si stanno preparando da mesi per le
legislative. A loro non interessa la presidenza della Repubblica (le
cui consultazioni sono previste per l’inizio del 2012, n.d.r); puntano
piuttosto ad avere un peso decisivo nel Parlamento. Non è affatto raro
vedere gruppi di giovani in caftano e ciabatte battere i quartieri di
periferia, dove regna soprattutto la miseria. Girano casa per casa, a
qualsiasi ora del giorno e della notte. In queste zone poverissime
faranno sicuramente il pieno di voti, spiegando che l’islam è la
soluzione di tutti i mali».
Sarà anche per questi timori che, sempre più
di frequente, si leva la richiesta (finora inascoltata) che si arrivi
ad un rinvio delle elezioni di settembre. Sul settimanale Al-Ahram,
qualche settimana fa, Ibrahim Darwich, una delle massime autorità
egiziane in materia di diritto costituzionale, invitava a prendere in
considerazione la possibilità di prolungare il periodo di transizione
politica di un anno, offrendo così ai movimenti di Piazza Tahrir e alle
fazioni moderate il tempo di radicarsi e di selezionare una vera classe
dirigente, in grado di contrastare la crescita del fondamentalismo
musulmano specie nelle aree rurali e nei quartieri più poveri.
Giuseppe Caffulli