29/08/2011
Antonio De Capoa, presidente della Camera di commercio italo-libica e consulente dell'African developement bank.
Il futuro delle imprese italiane è in Africa. Con la caduta del regime di Gheddafi e il cambiamento politico a Tripoli, le aziende che operavano in territorio libico torneranno presto nel Paese nordafricano. Ma nell'orizzonte italiano non c'è solo la Libia. Le grandi opportunità dell'Italia si trovano ancora più a Sud: è sull'Africa sub-sahariana, in forte crescita, che ora il nostro Paese deve puntare. Ad affermarlo è Antonio De Capoa, avvocato bolognese, presidente della Camera di commercio italo-libica e consulente dell'African development bank, la banca per lo sviluppo africano, che ha sede in Costa d'avorio ed è partecipato da 77 Paesi, dei quali 53 africani e 24 di altri continenti (fra questi l'Italia).
De Capoa, che scenario futuro prevede per le imprese italiane che operavano in Libia?
«Noi come Camera di commercio abbiamo inviato un questionario alle 500 società che facevano affari in Libia, anche per fare una stima dei danni arrecati dal conflitto. Se gli italiani saranno rapidi e se il Governo darà una mano, requisito fondamentale, nel giro di alcune settimane, tra fine settembre e i primi di ottobre, ritengo che l’Italia potrà tornare in Libia gareggiando alla pari con gli altri grandi partner mondiali del Paese nordafricano».
Manifestanti libici contro il regime di Gheddafi.
Quali in particolare?
«La Cina, ma anche Russia, Corea, Sudafrica, Emirati
arabi uniti, Turchia. In Libia c’era una comunità di 300mila cinesi, una
presenza significativa su una popolazione di 6 milioni e mezzo di
abitanti. Prima del conflitto, Pechino aveva cominciato i lavori per il
progetto di una ferrovia di 8mila km che attraversa la Libia fino
all’Africa centrale. Un progetto che va di pari passo a quello della
ferrovia costiera, che parte dalla Tunisia per arrivare fino all’Egitto;
questo progetto se lo sono aggiudicato i russi. L’Italia è il primo
partner della Libia in Europa, ma in confronto agli investimenti di
Paesi come la Cina, quelli italiani sono molto modesti: non va
dimenticato che fino al 2006 alla Libia erano imposte sanzioni
economiche».
La Libia è un Paese ricco di bellezze naturalistiche e archeologiche.
Pensa che il cambiamento di regime darà un impulso allo sviluppo
turistico?
«Sì, certamente. Noi italiani siamo arrivati in ritardo, ma già da
alcuni anni il turismo libico si stava muovendo: sudafricani, arabi e
russi avevano costruito alberghi di lusso, anche a sette stelle. Certo,
lo sviluppo turistico era penalizzato dall'embargo imposto al Paese. In
pochi anni è stato difficile colmare un ritardo di almeno vent'anni. Ma c'è, comunque, un dato da rilevare: tutto il continente africano sta camminando e si sta evolvendo rapidamente».
Danze e canti per l'indipendenza del Sud Sudan, celebrata lo scorso 9 luglio.
Quindi l'Italia dovrebbe focalizzare i suoi interessi sull'area sub-sahariana?
«La Cina, già da alcuni anni, ha capito le grandi
potenzialità di questa
zona del mondo. Tutta l’Africa a Sud del Sahara rappresenta
un’opportunità per l’Italia. Si parla tanto del boom
cinese, brasiliano, russo, ma quasi mai dello sviluppo africano. Guardiamo alla crescita dell'Angola; e pensiamo al neonato Sud Sudan: anche questo Paese diventerà presto di
grande interesse per noi. Qualche mese fa il gruppo italiano Astaldi ha vinto
una commessa per costruire la più grande centrale idroelettrica al mondo
in Africa centrale, un’opera colossale. In Sudafrica, la tecnologia
italiana è molto amata. La sesta persona più ricca di quel Paese è un
italiano: è arrivato là circa 40 anni fa per importare ceramiche e
piastrelle e da lì ha creato un’enorme fortuna. Bisogna considerare anche la vicinanza
geografica: con poche ore di volo
si può arrivare in buona parte dei Paesi africani. C’è, poi, una
questione molto importante che
quasi mai nessuno rileva: la presenza dei missionari in Africa può
costituire una straordinaria sponda allo sviluppo del mondo
imprenditoriale italiano».
In che senso?
«Senza voler assolutamente trasformare i missionari in agenti di
commercio o distoglierli dal loro impegno primario, nei Paesi e nelle
aree in cui il mondo missionario italiano è una presenza forte e
consolidata i religiosi, conoscendo perfettamente il territorio, possono
fornire informazioni molto utili a livello strategico, economico e
sulla popolazione locale, affiancando il mondo imprenditoriale italiano.
Non dimentichiamo che buona parte della classe dirigente africana si è
formata all’interno delle missioni. Abbiamo una risorsa enorme, pensiamo
ai sacerdoti che sono presenti in Africa da trenta-quarant'anni: spesso possono
fornire informazioni e suggerimenti strategici ancora più fondati e
significativi di quelli forniti da funzionari, dirigenti o diplomatici. Ma in Italia ancora manca questo tipo di mentalità».
Giulia Cerqueti