22/09/2012
Mitt Romney.
Nelle campagne elettorali americane la religione ha un peso specifico molto più alto che nei Paesi europei: non c'è elezione in cui i temi etici non finiscano al centro dell'arena, e non di rado è la stessa fede di un candidato a diventare argomento di dibattito. Eppure nella solitudine della cabina elettorale conta di più l'etnia, della religione. È quanto emerge da un sondaggio dell'Istituto di Ricerca Pew di Washington pubblicato in questi giorni sulla religione e l'affiliazione politica.
Sarebbe fuorviante, per esempio, dire che la maggioranza dei cattolici americani vota per Romney: è in vantaggio tra i cattolici bianchi (50%, contro il 41% che propende verso i Democratici, e un 9% che si definisce indipendente); ma tra gli ispanici - che rimangono in maggioranza fedeli alla Chiesa di Roma - le cosa cambiano, e di parecchio: il 63% vota per il partito di Obama e solo il 28% per il GOP. Gli evangelici sono in stragrande maggioranza repubblicani (71% contro 22%) e quasi esclusivamente bianchi, così come i mormoni (79% a 19%), mentre tra gli ebrei vincerebbe Obama, anche se il suo vantaggio si è andato assottigliando negli ultimi quattro anni, da 52 a 38 punti. Difficile trarre conclusioni però: queste ultime due religioni, per esempio, compongono solo il 2% ciascuna dell'elettorato.
La fetta più grande della torta elettorale americana è composto dai protestanti non evangelici (battisti, episcopali, presbiteriani, metodisti), che nel 2008 era divisa equamente tra i due partiti, mentre oggi i Repubblicani hanno un vantaggio di dodici punti (52% a 40%). I numeri cambiano, però quando si guarda alle preferenze dei protestanti neri, dove il partito di Obama schizza -prevedibilmente - all'89%. Sotto il grande ombrello del protestantesimo esistono poi decine di denominazioni minori, più o meno schierate politicamente. Negli stati rurali e nel Sud per esempio, i predicatori evangelici hanno largo seguito e sono anche efficientissimi nella raccolta fondi per la campagna repubblicana. Nei grandi centri urbani invece prosperano la African Methodist Episcopal Church, fondata ai tempi della schiavitù, e altre denominazioni eredità del movimento per i diritti civili, come la Trinity United Church of Christ frequentata da Obama fino all'elezione.
Creata a Chicago per arginare l'esodo dei fedeli verso l'Islam - il primo a convertirsi fu Malcolm X, il carismatico leader delle Pantere Nere - la Trinity cercò di dare sfogo alla rabbia repressa degli afromericani adattando agli Stati Uniti la Teologia della Liberazione nata in Sudamerica. Quattro anni fa, però, Obama ha dovuto prendere le distanze dal suo pastore dopo che alcune frasi incendiarie tratte dai suoi sermoni finirono sui giornali. Quest'anno invece Mitt Romney ha acceso i riflettori sulla Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni (come i mormoni preferiscono essere chiamati). La sua elezione equivarrebbe ad un ufficiale "sdoganamento", ma l'attenzione riservata ad alcuni precetti mormoni - come il divieto di bere caffeina, di cui Romney sarebbe poco osservante - non ha certo aiutato a sfumare la diffidenza del resto del Paese. Inizialmente, la religione fu il tallone di Achille anche per il cattolico Kennedy, che ne uscì soltanto difendendo a spada tratta la separazione tra Stato e Chiesa.
Non tutti i presidenti hanno cercato di tenere la propria religione fuori dallo Studio Ovale. Il metodista George W. Bush la usò per fare leva sull'elettorato conservatore, ricordando spesso di essere un "cristiano rinato". Subito dopo l'11 settembre parlò di una "crociata", aggiungendo qualche anno dopo che "Dio parla attraverso di me". Difficile averne prova. L'unica cosa su cui sono tutti d'accordo, comunque, è la scritta sulla banconota da un dollaro: In God We Trust. Nel Presidente, dipende.
Claudia Andreozzi