28/11/2011
Esponenti della società civile manifestano a Durban, in Sud Africa, fuori dalla sede nella quale si svolge la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite.
L'Africa torna al centro del dibattito sul cambiamento climatico, con la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, che si apre oggi a Durban. Se due anni fa alla Conferenza di Copenhagen i Paesi africani si erano fatti sentire, in quanto prime vittime delle ingiustizie sociali causate dal clima che cambia, ora il Sud Africa fa gli onori di casa. E deve dimostrare la leadership su questo fronte, in quanto il Paese è il principale emettitore di CO2 del continente.
La partita è impegnativa: il primo periodo degli impegni del Protocollo di Kyoto termina nel 2012 e si attende un segnale chiaro sulle azioni che i Paesi intraprenderanno nel secondo periodo per salvare il pianeta e la popolazione. A Durban i leader dei governi possono rafforzare i progressi compiuti finora e impegnarsi per prevenire cambiamenti climatici fuori controllo, oppure possono lasciare che gli interessi nazionali a breve termine spingano il mondo verso un riscaldamento globale di 3-4 °C, che sarebbe una vera tragedia.
L'inquinamento nel centro di Pechino, in Cina.
«In questo momento i governi non pensano al clima perché impegnati ad affrontare le contingenze e la crisi economica, ma come dimostrano anche i recenti eventi climatici italiani, se non si affrontano i problemi alla radice non riusciremo neanche a gestirne le conseguenze», afferma Mariagrazia Midulla, responsabile Clima del WWF Italia. «Dopo vent’anni di economia di carta, il mondo sta tornando alla realtà fisica dell’economia reale: così Durban deve riportare il mondo alla realtà scientifica del cambiamento climatico e delle sue conseguenze, eliminando le scappatoie esistenti».
Secondo gli ambientalisti è fondamentale che venga definito un secondo periodo per il Protocollo di Kyoto, a oggi l’unico accordo internazionale legalmente vincolante, oltre che - per i Paesi in via di sviluppo - la cartina di tornasole della volontà di agire dei Paesi sviluppati. Un accordo che non è bastato comunque sinora per ridurre le emissioni serra, cresciute del 38 per cento tra il 1990 e il 2009.
Un attivista ambientale davanti all'Ambasciata degli Stati Uniti a Manila, nelle Filippine.
«L’Unione Europea è impegnata in quel sistema di regole multilaterali che è il Protocollo di Kyoto. Ma una seconda fase con solo l’UE, o quasi, coinvolta in questo accordo consentirebbe di coprire appena l’11% delle emissioni globali. Questo non può costituire un successo a Durban. Che cosa avviene per il restante 89% delle emissioni mondiali? Quando e come questi altri Paesi saranno impegnati?», si chiede Connie Hedegaard, Commissaria europea per l'Azione per il Clima. «La posta in gioco a Durban è garantire che tutti i Paesi, sviluppati ed emergenti, si impegnino a contribuire per la loro parte in un quadro di accordo globale».
Serafhina Gigira Aupong, un'ambientalista della Papua Nuova Guinea davanti alla centrale mineraria della Vattenfall Ag in Germania.
Dello stesso avviso anche Greenpeace, secondo cui anche Paesi emergenti come India e Cina devono fare la loro parte. Con l'assenza di Usa, Cina, India e Brasile, il tratto copre ormai, infatti, meno del 30% delle emissioni globali. «Pare insensato continuare a investire miliardi di euro nei combustibili fossili invece che nelle fonti rinnovabili».
Per l’Unione Europea la riduzione delle emissioni non è un’opzione ma una necessità: l'obiettivo adottato del 20% di riduzione è largamente al di sotto delle possibilità del continente e non conviene nemmeno all’economia, tanto che anche dal mondo industriale è arrivata la richiesta di impegni più stringenti.
Gabriele Salari