05/02/2013
Ethan è salvo e il suo sequestratore è morto. Un blitz combinato di forze di polizia locali, federali e – sembra – militari, ha posto fine all’incubo che per una settimana ha tenuto l’America e non solo, col fiato sospeso. Uno “standoff” come lo chiamano qui - una guerra di nervi tra il 65enne reduce del Vietnam Jimmy Lee Dykes che dopo aver rapito un bambino di nemmeno 6 anni strappandolo dallo scuolabus che lo ripotava a casa, e ucciso davanti a una ventina di altri bambini l’autista di quel pulmino che cercava di fermarlo, lo ha tenuto in ostaggio in un bunker sotterraneo di due metri per due, e le autorità – dallo sceriffo locale alle squadre speciali di negoziatori dell’FBI - che da martedì scorso tentavano “con le buone” di evitare il peggio.
Alla fine “con le cattive” ci sono riusciti: quando dal tono del rapitore i negoziati e le comunicazioni sembravano deteriorarsi la polizia ha deciso di entrare in azione – il “come” è ancora in gran parte coperto dal riserbo di un investigazione in corso. Per certo si sa che dopo un paio di forti esplosioni le squadre speciali hanno tratto in salvo il bambino e ucciso – anche in questo caso non si sa ne come ne perché’ - l’uomo, armato, che per 6 giorni lo aveva tenuto in ostaggio. Giustamente l’attenzione dei media è ora tutta sul bambino – che sembra affetto da un leggera forma di sindrome di Asperger e di deficit di attenzione - e sulla famiglia. “Ethan sta bene gioca, scherza e ride,” dicono i comunicati ufficiali ma, come è ovvio ci si interroga, avvalendosi di testimonianze di psicologi e vittime ormai cresciute di simili situazioni, su quali conseguenze potrà avere su una psiche già fragile un esperienza del genere e quando e se sarà mai possibile per lui “elaborarla, digerirla e smaltirla” del tutto.
Un po’ meno attenti i mezzi di comunicazione americani – come purtroppo spesso accade in questi casi – nel sottoporre a loro stessi e agli onnipresenti “esperti”, altri quesiti e riflessioni che vanno al di là del semplice fatto di cronaca. Al contrario sarebbe d’uopo in un caso del genere, un approfondimento sull’identità dell’assassino/rapitore. E se si ha la pazienza di leggere gli articoli fino alle ultime righe emerge che questo signor Dykes viveva in una roulotte piazzata su un fazzoletto di terra di sua proprietà in una zona remota e rurale del sud dell’Alabama sui confini della quale era stato visto aggirarsi armato per scoraggiare chiunque ad avvicinarvisi e all’interno della quale aveva costruito un bunker sotterraneo di sopravvivenza.
I media lo descrivono come un “survivalist”: termine che indica coloro ( e in America sono tanti) che temendo eventuali catastrofi – sanitarie, ambientali, politiche, e quant’altro - accumulano tutto ciò che serve per sopravvivere a lungo “survive” , appunto, in un luogo sicuro: cibo in scatola, acqua, torce elettriche, batterie, generi di prima necessità insomma a cui spesso si aggiungono ahimè anche armi e munizioni. Basta un breve giro su internet per capire l’ampiezza del fenomeno e scoprire che per esempio il numero di chi cede a questa paranoia collettiva – iniziata fondamentalmente negli anni 50 con le paure nucleari della guerra fredda - cresce alimentato dal catastrofismo dei canali allnews costretti in un modo o nell’altro a tenere alta sempre e comunque l’attenzione , in corrispondenza delle grandi crisi internazionali – reali come l’11 settembre o solo percepite come il Y2K, il fatto che allo scoccare dell’anno duemila i computer di tutto il mondo sarebbero impazziti.
La categoria è chiaramente ampia e va da coloro che semplicemente non vogliono trovarsi impreparati per l’uragano o il tornado di turno ai teorici della cospirazione che organizzano milizie armate animate dalla paura atavica del governo invasore (su cui si basa tra l’altro il famigerato secondo emendamento della costituzione – quello che garantisce il diritto ai cittadini di armarsi - scritto nel 1791 con il rischio che gli inglesi ci ripensassero e tornassero in forze a riprendersi la colonia appena perduta).Precauzione a dir poco infondata visto che, e Midland è solo l’ultimo di una serie di esempi, se decide di farlo il governo nel bunker ci entra come e quando vuole.
Comunque il signor Dykes, che secondo le prime ricostruzioni avrebbe preso in ostaggio il bambino perché’ voleva essere ascoltato su questioni definite “complicate”, rientrava probabilmente in quest’ultima categoria. E in paese (Midland conta si e no duemila anime) sembra che lo sapessero un po’ tutti. Il fatto che avesse una causa in corso per una lite violenta con un vicino, poi, lascia perplessi sul perché’ sia potuto salire, indisturbato e soprattutto armato, su un pulmino della scuola. Infine il suo status di reduce apre tutta una serie di riflessioni – troppo ampie in questa sede – sulla scarsa attenzione del governo federale al trattamento dei danni psicologici delle guerre che dichiara e che secondo le ultime statistiche tra suicidi e crimini violenti crea più vittime tra i reduci tornati in patria che tra i soldati sui campi di battaglia.
Certo il brutto film di Midlandè finito bene, ma non come hanno detto in molti “nel migliore dei modi”. Anche perché’ nel troppo gioire per l’eliminazione fisica dei ‘mostri’ – cosa che gli Americani purtroppo dalla strega del mago di Oz a Osama Bin Laden hanno come vizio – si perdono occasioni preziose per riflettere sulla società che li crea.
Stefano Salimbeni