05/09/2012
Gian Carlo Caselli ai tempi di Palermo con Nino Caponnetto. (Ansa)
La notizia, in sintesi estrema, è che il Tribunale per minorenni di Reggio Calabria ha preso la decisione di sottrarre un figlio minore a una famiglia di ‘ndrangheta per affidarlo a una comunità lontana dalla Calabria. «E’ l’unica soluzione per sottrarre», hanno scritto i giudici, il ragazzo «a un destino ineluttabile, e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore di provenienza», sperando che «possa affrancarsi dai modelli parentali sinora assimilati».
E’ una decisione, di cui rende conto Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, che si presta ad accendere il dibattito. Facile, ma forse semplicistico, arrivare alla domanda brutale: per sconfiggere le mafie bisogna sottrarre i figli ai mafiosi?
Gian Carlo Caselli, Procuratore della Repubblica a Palermo dal 1993 al 1999, oggi a capo della Procura di Torino, dove si pure si indaga sulla 'ndrangheta al Nord, accetta di riflettere brevemente con noi, soprattutto per sgomberare il campo da facili generalizzazioni: «Mi sentirei soltanto di dire che di casi come quello citato - ma potremmo ipotizzarne molti e diversi: famiglie criminali, famiglie mafiose, famiglie terroriste, famiglie schiave della droga… -, non si possa né si debba ragionare in termini generali».
«Non si può chiedersi», spiega il Procuratore, «se sia ipotizzabile o corretto o ammissibile sottrarre i figli a famiglie che manifestano forme di devianza più o meno spiccata in questo o quel contesto. Come sempre si fa, quando si tratta di decidere l’affidamento di un minore, ogni caso va valutato a sé, nel contesto della vicenda di quel singolo minore in quella particolare, singola, famiglia, in quel preciso contesto. Nessun altro criterio può valere. Ogni altra riflessione mi parrebbe, in questo caso, mal posta».
Elisa Chiari