15/11/2012
Una manifestazione a favore dei bombardamenti israeliani su Gaza (Reuters).
"E poi?" Pochi giorni fa, quando la guerra di raid e razzi tra Israele e Hamas era già iniziata ma in 'tono minore', un giornalista palestinese mise questa semplice, anodina domanda sulla sua pagina di Facebook. "E dopo?" Niente di più. Oggi, mentre osserviamo a distanza l'ennesima escalation di violenza e lutti in Medio Oriente, quella domanda diventa improvvisamente chiara. E poi, cosa succederà? O meglio, dove si arriverà? La fiammata scoppiata il 14 novembre del 2012 è solo l'ennesimo, tragico, luttuoso episodio in un conflitto a bassa intensità, quello tra Israele e Hamas, che va avanti da anni, se non da decenni? Oppure coinvolgerà anche altri, stavolta, perché il Medio Oriente e il Nord Africa sono cambiati, cambiati in un modo che sembra ancora incredibile e non del tutto comprensibile?
A prima vista, tutto spingerebbe sia Israele sia Hamas a spegnere subito i fuochi che stanno pericolosamente incendiando Gaza e il sud di Israele. Israele deve ancora comprendere come evolverà la situazione a nord, in Siria e anche in Libano: la fine vicina del regime di Bashar el Assad non ha, infatti, sciolto gli interrogativi riguardo all’assetto della Siria, in piena guerra civile. E anche in Libano i segni di instabilità non si sono affatto mitigati. Israele, insomma, deve ancora comprendere su quale terreno si sta muovendo, mentre la regione vede un attivismo diplomatico nuovo, quello di Turchia ed Egitto che – a quanto sembra – hanno superato le distanze che allontanavano i due Paesi quando al Cairo c’era saldo in sella Hosni Mubarak. E poi c’è la dimensione interna a Israele, con una crisi socio-economica che colpisce settori consistenti della popolazione e che ha, anzi, spinto il premier Bibi Netanyahu a scegliere la via delle elezioni anticipate. Ha, infatti, bisogno di un sostegno forte per poter decidere una finanziaria per nulla morbida.
A tutto va aggiunto il peso dei risultati elettorali americani. La riconferma del presidente Barack Obama è stato un duro colpo per Netanyahu, che non aveva fatto mistero di appoggiare Mitt Romney e che nei mesi precedenti aveva avuto frizioni con la Casa Bianca sulla risposta da dare al nucleare iraniano. Un quadro complesso, dunque, quello in cui il governo Netanyahu ha preso una decisione che è probabile sarà foriera di conseguenze pesanti. L’esecutivo israeliano è ricorso ancora una volta, come spesso in questi decenni di confronto con Hamas, a un omicidio mirato eccellente. L’uccisione di Ahmed al Jabari, capo delle Brigate Izzedin al Qassam e appartenente alla cosiddetta generazione di mezzo della dirigenza islamista, ritenuto responsabile del sequestro del militare Shalit, si inserisce nella serie di omicidi mirati che nel corso della ultraventennale storia di Hamas hanno decapitato il movimento. Da Salah Shehadeh, predecessore di Jabari, a sheykh Ahmed Yassin, leader e fondatore di Hamas.
E lo stesso Netanyahu non è nuovo al ricorso agli omicidi mirati: ci provò con Khaled Meshaal e con il tentativo di assassinarlo con il veleno, compiuto durante il suo premierato del 1997. Le Brigate Ezzedin al Qassam hanno già reso noto il nome del successore di Jabari, Marwan Issa. Una procedura tradizionale, dentro Hamas, per dimostrare che l’uccisione di un uomo non distrugge il movimento. Certo è che, in ogni caso, la figura di Jabari era particolare, negli equilibri del movimento islamista. L’anno scorso era stato uno dei protagonisti dello scambio di prigionieri, l’accordo attraverso il quale era stato rilasciato Gilad Shalit e circa un migliaio di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Era, in sostanza, uno dei pochi uomini dell’ala militare a entrare di peso nelle decisioni politiche.
La sua scomparsa inciderà nel vertice di Hamas, in una fase nella quale bisogna ancora decidere il capo dell’ufficio politico che dovrà sostituire Khaled Meshaal? È ancora presto per dirlo. Ma è invece probabile che la reazione dell’ala militare di Hamas non potrà essere moderata, come si è già verificato quando – per ordine di Shimon Peres – Israele uccise Yahya Ayyash, l’Ingegner Morte, nel gennaio del 1996, in un periodo in cui era in corso una tregua non scritta nella triste stagione degli attentati suicidi compiuti dalle fazioni armate palestinesi. L’omicidio mirato di Ayyash diede la stura a un’altra serie tragica di attentati suicidi. Una stagione che Hamas ha chiuso formalmente dal marzo del 2005. Questo non significa, però, che la reazione non sarà una reazione armata, militare, e pesante, come si vede dalle centinaia di razzi lanciati contro le città israeliane del Negev.
Il rischio non si limita, in ogni caso, a una escalation tra Hamas e Israele. A uno scontro a due. C’è un Egitto diverso, a sud della frontiera di Gaza e di Eilat. C’è una presidenza, un governo, un parlamento di colore islamista, e ci sono soprattutto istituzioni che ora debbono rendere conto al consenso popolare, al contrario di quanto succedeva sotto il regime di Mubarak. L’attacco israeliano contro Gaza è, per gli egiziani, ingiustificabile, tanto da suscitare pressioni popolari perché il Paese chiuda le relazioni diplomatiche con Israele. Per il presidente Mohammed Morsy, gestire la sua prima crisi regionale non sarà affare semplice.
Paola Caridi