11/03/2012
Un soldato israeliano presso una postazione anti-missile nel Sud di Israele (tutte le foto di questo servizio: Ansa).
DA BETLEMME - Al terzo giorno di scontri tra l'aviazione di Israele e le batterie missilistiche dei
Comitati di resistenza popolare e della Jihad Islamica della Striscia di Gaza (con 15 palestinesi uccisi e alcuni israeliani feriti in modo grave dai razzi sparati verso le città di Ashdod, Asqelon e Beer Sheva), appare sempre più chiaro che la nuova fiammata di guerra va inscritta nell'ormai certificato fallimento dell'accordo (siglato una prima volta al Cairo quasi un anno fa e ribadito poche settimane fa a Doha, in Qatar) tra Al Fatah e Hamas, tra Abu Mazen e Khaled Meshaal, tra coloro che controllano l'Autonomia palestinese e la Cisgiordania e chi governa la Striscia di Gaza.
In Cisgiordania si riversa tutta la colpa su Hamas che, al momento di finalizzare l'accordo in un'ipotesi di Governo (e quindi di potere), avrebbe preteso per i propri uomini il ministero degli Interni, della Sicurezza e dell'Economia. Come dire: tutto ciò che più conta. Una richiesta respinta al mittente. Ma con le conseguenze che vediamo: la parola è tornata a chi manovra le armi e a chi vuole accreditare le frange violente del mondo palestinese come le uniche in grado di opporsi davvero a Israele.
La vera difficoltà, in un quadro di guerra a bassa intensità ma continua, ricade sul contendente meno bellicoso, cioè la Cisgiordania di Abu Mazen. Per difficoltà e incapacità interne, certo: a proposito di Economia, va pure ricordato che l'attuale ministro è in carcere, con gravi accuse di corruzione. Ma anche perché il "tanto peggio" rappresentato dagli scontri armati diventa, dal punto di vista politico, un "tanto meglio" per Israele e per Hamas.
Hamas, con queste crudeli e inutili prove di forza, si guadagna presso i palestinesi una fama di coraggio e intransigenza che viene sempre più persa, al contrario, da Abu Mazen e dai suoi, ormai da molti ritenuti, anche in Cisgiordania, o troppo deboli e irresoluti o, addirittura, succubi di Israele, di cui sarebbero quasi dei proconsoli incaricati di tener buoni i palestinesi. E' la riedizione del 2006, quando alle elezioni Hamas ottenne una netta maggioranza.
Israele, potendo giustamente dimostrare di essere sotto attacco, ottiene una specie di impunità generale: nel 2011, per fare un esempio, il numero delle abitazioni costruite in Cisgiordania è cresciuto del 19% rispetto al 2010, ma nessuno ha avuto il coraggio di fare una qualunque osservazione.
Il fumo delle esplosioni su Gaza dopo i raid israeliani.
Naturalmente la strategia di Hamas è suicida: dal 1948 a oggi, passando per la Guerra dei Sei Giorni (1967), quella dello Yom Kippur (1973), le due intifada e la guerra con Hamas del 2008-2009, non c'è scontro armato che non si sia risolto in una perdita politica e territoriale per i palestinesi. Ma Hamas vive nel regno-prigione della Striscia, poco gli importa di quanto avviene in Cisgiordania. Tanto più che Barack Obama, impegnato nella lunga campagna per restare alla Casa Bianca, tutto può fare tranne che inimicarsi il voto dell'elettorato ebraico (dopo Israele, gli Usa ospitano la più vasta comunità ebraica del mondo: 5,5 milioni di persone) e dei cristiani sionisti, una galassia che invece raduna decine di milioni di persone.
Debolezza e inefficienza di Al Fatah in Cisgiordania. Strategia violenta di Hamas. Indifferenza politica degli Usa. Lucidità e cinismo nel lungo periodo di Israele. Queste le carte sul tappeto. Per sparigliare ci vorrebbe una decisa apertura nei colloqui di pace tra Israele e i palestinesi di Cisgiordania. Cosa che alcuni non desiderano e altri non possono imporre. Sembra il prologo perfetto a una nuova intifada.
Fulvio Scaglione