24/01/2013
Gianni Agnelli in visita a Villarperosa, durante un allenamento della Juventus (Ansa).
Per i dieci anni da che è scomparso Gianni Agnelli (24 gennaio 2003) ci sono molte celebrazioni, con sconfinamenti verso l’agiografia di uno che fu tante cose, tante persone in una, e fu anche un gaudente pagano intelligente: e lui sarebbe il primo a sorridere di certi supergentili eccessi attuali nei suoi riguardi.
Chi scrive queste righe ha avuto la fortuna di conoscerlo in un abbastanza lungo rapporto privilegiato, molto diretto, fra giornalista sportivo e appassionato/mecenate dello sport, e offre una serie di ricordi personali forse più utile di tante pompose rievocazioni per riproporre quello che fu comunque un enorme personaggio, il re torinese di un’Italia repubblicana, e che anche o specialmente parlando di sport offrì di se stesso una immagine divertente, divertita, sincera.
La premessa è un ringraziamento a chi, amico comune suo e mio, propiziò l’inizio dei contatti fra il magnate e il giornalista e, cioè Giampiero Boniperti, calciatore e poi presidente di quella Juventus che Gianni Agnelli, l’Avvocato (A maiuscola, tanto mai fu davvero avvocato), amò assai e di cui promosse lo stesso Boniperti a rappresentante ottimo massimo. Pronti - via, adesso, con tante scuse per l’uso della prima persona singolare.
IL PRIMO AGNELLI – Fine 1979, passo da Tuttosport, giornale di proprietà privatissima, a La Stampa, proprietà Fiat cioè Agnelli (o viceversa). La redazione sportiva mi mette in un certo senso alla prova, subito una intervista all’Avvocato, che non è uso a parlare ufficialmente di sport, meno che mai col giornale suo.
Lui ci sta, parliamo un’ora al telefono, scrivo quasi una pagina, il pezzo esce con due tagli tecnici (o no?): uno riguarda i suoi pareri sui grandi capi comunisti tifosi juventini, cioè Togliatti, Berlinguer e Lama (padri, se vogliamo, di Veltroni), l’altro riguarda la memoria fresca di un suo incidente sciatorio, con tanto di gesso. Il problema è che viene lasciata la frase che chiude l’articolo e che dice di “tutto Gianni Agnelli, dallo scibile allo sciabile”. Questo “sciabile” galleggia senza senso alcuno, visto che di sci non si parla mai. Ricorderò la cosa con l’Avvocato nel 1999, celebrando in un party privato il successo di Torino nella gara per avere i Giochi olimpici invernali 2006, una gara che lui fece vincere alla sua città, con una gamma di interventi miratissimi e potentissimi.
AGNELLI E LA JUVENTUS - Amore vero, grande di famiglia ma in lui e da lui vissutissimo, esaltatissimo. Però amore lucido, che gli permetteva di riconoscere il valore altrui e di onorare sempre la memoria del Grande Torino.
Ogni tanto mi chiedeva di passare da lui a parlare del nostro calcio antiquo, Grande Torino contro sua Juventus. Era un amarcord reciproco, simpatico.
Sapeva eccome del mio tifo granata (Boniperti lo aveva erudito), e il giorno in cui mi propose un parallelo fra Gabetto e Padovano, fra il sacro ed il profano, il centravanti (ex Juve) del Grande Torino e un giovanotto bianconero emergente, gli dissi che vaneggiava o quasi e mica si arrabbiò. Ero al Sestriere, vigilia dei Mondiali 1997 di sci alpino, la sua convocazione gentile (“Se può, quando può, mi piacerebbe fare due chiacchiere”) mi arrivò mentre parlavo con Pescante e Tomba, stavo proprio per salutarli e scendere a Torino, gli dissi che non avevo niente da mettermi, sarei arrivato in due ore però in giubbotto…
Ogni tanto gli scappava la prima persona plurale parlando della Juve, con frasi tipo “Si ricorda quell’anno in cui acquistammo il danese Praest?”. “Acquistaste, Avvocato, acquistaste”, gli dicevo, e lui rideva. E magari insisteva: “E si ricorda di quell’anno in cui non riuscii a portare via al suo Torino Gigi Meroni?”.
AGNELLI E LA MARATONA DI NEW YORK – Famiglia Cristiana aveva onorato con suo grosso servizio anche fotografico la mia povera “eroica” maratona di New York, allenamenti quasi inesistenti, fatica da fachiro, comunque il percorso coperto in 5 ore e un quarto. Nel suo ufficio torinese, ancora nella sede storica di corso Marconi, teneva aperto sulla scrivania il settimanale con il reportage.
Volle sapere tutto della mia assurda ma per me splendida fatica. Mi chiese anche se non avevo patito il freddo (era novembre) che aveva tormentato i suoi amici newyorkesi maratoneti.
Avevo corso in divisa del mio Toro, maglia a calzamaglia e calzoncini e calzettoni granata, mostrando una foto gli dissi: “Vestito così non potevo sentire freddo”. Rise: “Che bella palla le ho servito”.
AGNELLI A A MONTECARLO – Sempre faceva una visita “pastorale” al box Ferrari in occasione del Gran Premio di Formula 1 nel Principato, e quasi felice si concedeva a giornalisti di tutti i paesi.
Ci fu quella volta in cui i colleghi francesi gli chiedevano quale calciatore transalpino gli sarebbe piaciuto per la sua Juve dopo Platini, volevano che lui dicesse Cantona e lui invece diceva Francescoli, uruguaiano che aveva fatto sfracelli a Parigi.
Un collega italiano, Ezio Pirazzini per la storia, in quell’occasione gli disse. “Avvocato, io ho comprato tante azioni Fiat e stanno perdendo valore, ci sto dentro sino al collo, sono preoccupato…”. Si aspettava conforto, consigli, l’Avvocato gli disse. “Pensi a me, ho più azioni di lei”. Soltanto un Gianni Agnelli poteva permettersi una farse simile senza essere morso sul collo: questione di classe nel dire, nel porgere, nel sorridere.
AGNELLI AL TELEFONO – Ebbene sì, sono stato fra quelli ai quali lui insonne ogni tanto telefonava all’alba, per parlare di cosine attuali o anche di massimi sistemi dell’universo Una sua usanza, quasi una leggenda.
Era l’incubo di pochi dormiglioni, la delizia di altri che si sentivano eletti. Una volta mi chiamò mentre stavo uscendo per portare il mio figlioletto a scuola, voleva conoscere il mio parere su Zico, calciatore brasiliano che stava per passare all’Udinese.
Il pupo scalpitava e temeva rimproveri per il ritardo.
Lo dissi all’Avvocato, gli spiegai che mai la maestra avrebbe creduto che io ero stato trattenuto da lui. Rise, ma poi si scusò e attaccò, proprio mentre gli stavo dicendo che tantissimi sarebbero stati felici di essere chiamati a a quell’ora dal celebre Avvocato.
Conclusione che, lo so per certo, piacerebbe a lui e non piace ai suoi agiografi: manca la controprova, se fosse nato povero, figlio di un pastore sardo o anche di un pastore piemontese della Val Chisone che lui amava (Villarperosa paese/feudo di famiglia), sarebbe diventato così brillante, sicuro, divertente, simpatico?
Io penso che di certo non sarebbe diventato l’Avvocato, ma che di certo qualche segno speciale, qualche unghiata di classe, qualche buona dose di educazione e ironia avrebbe sempre lasciato.
Gian Paolo Ormezzano