07/11/2012
Beppe Grillo (foto del servizio: Reuters).
Anno 1946. All’indomani delle elezioni per l’Assemblea Costituente un giornale uscì con questo titolo: “Trenta buffoni a Montecitorio”. I buffoni erano i trenta deputati eletti per il Fronte dell’Uomo Qualunque, un partito appena nato che voleva confluire fra i liberali ma ne venne respinto da un nume come Benedetto Croce.
Guidati da un giornalista e commediografo di grande inventiva, Gugliemo Giannini, i qualunquisti avevano quale programma lo Stato Amministrativo: cioè, detto in soldoni, un Governo retto da un semplice ragioniere che si insediava a Capodanno e se ne andava al 31 dicembre. Il che significava che Giannini e i suoi miravano a rimpiazzare i partiti dell’anteguerra ma non avevano nessuna idea sul dopo. Conseguenza, sia per il vuoto di propositi sia per la posta in gioco fra democristiani e comunisti, nelle elezioni del 18 aprile 1948 l’UQ venne spazzato via e poco dopo scomparve.
Non per questo, tuttavia, il qualunquismo ha fatto la fine dei suoi promotori. Al contrario, il termine si è eternato nella sua connotazione più negativa, nel senso di una protesta da bar che, politicamente, non conduce da nessuna parte. Ora facciamo un salto nel tempo, quasi tre quarti di secolo, e atterriamo a pié pari sul movimento di Grillo. Al quale la connotazione qualunquista perfettamente si adatta.
Qui però si impone una considerazione. Se strati popolari più o meno estesi aderiscono a simili movimenti è del tutto inutile, o peggio fuorviante, fare del moralismo politico. E’ colpa dei maggiori partiti se la loro inefficienza, accompagnata da scandali assortiti, provoca al tempo stesso la protesta nelle urne e l’astensione di massa. Oggi l’uomo della strada, erede dell’Uomo Qualunque schiacciato dalla pressa del potere, non ha altro modo per esprimersi. E se nel 1946 i partiti tradizionali avevano come giustificazione i guasti tremendi della guerra, quelli attuali non hanno scusanti. Non è solo per la crisi economica che si è rischiato, anzi tuttora si rischia, il dissesto nazionale. Sappiamo tutti che il male affonda nei decenni precedenti.
Appresso. Fra qualche mese si tornerà a votare, e altro che i trenta buffoni. Si prospetta per Montecitorio un centinaio di deputati, o persino di più a seconda della legge elettorale (finora nelle secche parlamentari, e anche questa è responsabilità dei partiti). Al Senato, poi, mistero: ma nessun ottimismo. Una tale rappresentanza porrà problemi enormi. Se Grillo avesse un minimo di programma politico, sarebbe il male minore. Anche con le stravaganze ci si può confrontare. Di fronte invece al nulla, non c’è dialogo.
Questo significa che, salvo contorcimenti che riabiliterebbero la “legge truffa” del 1953 – la quale, in verità, giustamente tendeva a rendere governabile il Paese – nessuno in primavera avrà una vera maggioranza. Né sono in vista scossoni paragonabili alla ventata anticomunista del 1948, che portò al potere la Dc. Oggi si ragiona sui mercati, sullo spread, sulla paga che non basta, sui negozi e le fabbriche che chiudono, su uno stato d’animo popolare che ormai confina con l’angoscia. Come risposta, i partiti si baloccano sulle primarie.
Conclusione. Andiamo incontro ad anni bui, peggiori di quelli che stiamo vivendo. Non sembra davvero che i candidati al governo se ne rendano conto. E Grillo, per conto suo, dice di non voler governare. Guglielmo Giannini, almeno, ci provava. Se qualche studioso scova situazioni consimili in altre nazioni, del presente o nel passato, abbia la bontà di informarci. Forse Haiti dopo Papà Doc, ma non è una consolazione.
Giorgio Vecchiato