10/02/2012
Il primo ministro indiano Manmohan Singh in visira al Memoriale del Mahatma Gandhi a Nuova Delhi (foto Reuters).
Quando il 24 luglio 1991 l'allora ministro delle finanze Manmohan Singh – oggi primo ministro indiano – pronunciò il suo celebre discorso sul bilancio, l'India era sull'orlo del baratro. Sotto la pressione del Fondo Monetario Internazionale, Singh diede inizio a una serie di riforme che traghettarono il sistema economico del subcontinente dal modello socialista a quello capitalista: apertura delle frontiere a mercato e investimenti internazionali, deregulation, privatizzazione, riforma del sistema fiscale e misure per controllare l'inflazione. Il risultato fu uno dei miracoli economici della storia contemporanea. In meno di dieci anni 300 milioni di persone uscirono dalla critica soglia del livello di povertà e, nel 2007, l'India tocco' la vetta del 9% di crescita del Pil, suscitando l'invidia dell'intero pianeta. Il subcontinente indiano si avviava così a diventare, secondo le previsioni, la terza potenza economica del mondo, a fianco della Cina e degli Stati Uniti.
Eppure oggi, a un ventennio da quella storica rivoluzione, l'economia indiana comincia a dare preoccupanti segni di cedimento. Inflazione, rallentamento della crescita, caduta della rupia, diminuzione degli investimenti esteri. Il PIL fermo al 7%, con probabile caduta fino al 4% nei prossimi mesi. E questo nonostante Manmohan Singh – l'uomo della trasformazione, il grande economista del miracolo indiano – sia alla guida oggi non più delle Finanze, ma dell'intero paese. Cosa è successo? La prima e più grave causa di questo declino si chiama “corruzione”. Non si tratta di semplice mancanza di trasparenza. In India la corruzione è una malattia endemica, un sistema di vita che si stratifica orizzontalmente e verticalmemnte in tutte le direzioni. Sono corrotti i ministri e i mnisteri, le istituzioni, la sanità e il sistema educativo, travolti quotidianamenti da scandali giudiziari. Corrotte sono le imprese e corrotti i mercati, dalle grandi holding al piccolo rivenditore della strada, tutti sono obbligati a pagare qualcun'altro per poter lavorare. Anche la polizia è corrotta, dagli alti vertici fino al poliziotto di quartiere, che pretende una quota dai mendicanti, spesso bambini, per lasciarli elemosinare sui marciapiedi. Così come sono corrotti i giudici e i tribunali, dove assoluzioni e condanne hanno prezzi e condizioni.
proteste contro il premier indiano Singh nei pressi del Tempio d'Oro dei Sikh nella città di Amritsar (foto Ansa).
Non si salvano nemmeno i leader religiosi, i vari santoni trascinatori di folle di fedeli, che gestiscono dai loro “ashram” affari milionari assai poco puliti. Così come il movimento anti-corruzione, guidato dal veterano Hanna Hazare, che l'estate scorsa ha quasi paralizzato il paese con lo sciopero della fame a oltranza: ebbene, sì, sono corrotti anche loro, imputati in scandali e truffe di ogni genere e tipo. La politica neo-liberale che ha salvato il paese dal baratro nel 1991, lo ha poi precipitato nella piu' selvaggia delle corruzioni, un male che poco a poco ha finito per paralizzarlo. Manmohan Singh si trova ora a dover scegliere tra due alternative inconciliabili: salvare l'economia con una serie di drastiche riforme che avrebbero ripercussioni soprattutto sulle potenti e corrotte lobby industriali, o conservare il loro appoggio, indispensabile se vuole vincere le prossime elezioni generali nel 2014. Ma se vuole veramente combattere la corruzione, questa volta Manmohan Singh deve rischiare di trovarsi davvero solo contro tutti. Avrà il coraggio di farlo?
Marta Franceschini