23/10/2012
(Ansa)
Quello a cui stiamo assistendo in queste ore a proposito dell’ipotizzato aumento dell’orario di insegnamento settimanale dei docenti di medie e superiori è l’ennesimo, stucchevole teatrino politico. Un gioco delle parti, in cui i diversi attori recitano il proprio ruolo e in cui a essere penalizzati saranno, come sempre, i soggetti più deboli, cioè i lavoratori.
La proposta, prevista nella bozza della cosiddetta “legge di stabilità”, di innalzare da 18 a 24 il numero delle ore settimanali di docenza per i professori della scuola secondaria (inferiore e superiore) ha destato, com’era prevedibile, reazioni negative e proteste accese. Non solo presso gli operatori della scuola, ma anche tra le stesse forze politiche che sostengono il governo.
I principali due partiti di maggioranza hanno espresso contrarietà a questa norma. Prima il Pd e poi il Pdl hanno sostenuto le ragioni degli insegnanti. D’altra parte si sa che si tratta di una categoria professionale numericamente non irrilevante e dunque, in termini di consenso elettorale (anche in vista delle prossime consultazioni), è bene tenersela buona.
Nessuno sapeva nulla?
Questa, insomma, è l’impressione generale. E viene da chiedersi se è davvero possibile che il “governo tecnico” sia così tecnico da ipotizzare provvedimenti tanto impopolari senza alcuna consultazione previa con le forze politiche che gli garantiscono la maggioranza parlamentare. Ma la cosa ancora più fastidiosa è il sospetto che si sia voluto puntare in alto, le 24 ore settimanali, sapendo già in partenza che si sarebbe ottenuto qualcosa di meno: le 21 ore di cui ora si parla.
Se ciò accadrà, i partiti si potranno vantare di avere scongiurato un aumento eccessivo del carico di lavoro dei docenti, i quali dovranno pure ringraziarli che l’aumento degli impegni didattici sarà “soltanto” di 3 ore a settimana (anziché le 6 inizialmente previste). Gli insegnanti dovranno essere grati che, a parità di stipendio (e gli stipendi dei docenti italiani sono tra i più bassi nell’area dei Paesi economicamente avanzati), insegneranno 3 ore in più a settimana.
Il che significa, in termini pratici, avere una classe in più. In tal modo l’incremento del carico di lavoro non sarà di sole 3 ore: a queste andranno aggiunte tutte quelle necessarie alla preparazione delle lezioni, alla formulazione delle verifiche, alla correzione dei compiti in classe, al ricevimento dei genitori.
Risparmiare a tutti i costi
L’obiettivo è comunque chiaro: risparmiare. Aumentare il numero di ore di lezione per ogni docente significa ridurre il numero dei lavoratori. A questo proposito ci si chiede che fine faranno i precari, che nel corso degli ultimi anni hanno coperto migliaia di cattedre vacanti e come si manterranno le loro famiglie.
L’esecutivo calcola con questo provvedimento un risparmio di alcune centinaia di milioni di euro (per essere precisi, tra i 3 e i 7 milioni di euro nei prossimi due anni). Un risparmio significativo, certo. Una cifra molto modesta, però, se la confrontiamo, ad esempio, con gli 8,2 miliardi (e non milioni) di euro che rappresentano, ogni anno, il danno erariale per la mancata emissione di scontrini, ricevute e fatture fiscali. Insomma, la piccola evasione quotidiana che è sotto gli occhi di tutti.
Rivedere le priorità
Perché questo paragone, che qualcuno dirà starci come i cavoli a merenda? Soltanto per dire che forse le priorità di un governo tecnico di professori, che parlando di cultura, ricerca, istruzione si fanno belli tutti i giorni, potrebbero, anzi dovrebbero essere altre. Come, per restare in tema, una più decisa e capillare lotta all’evasione fiscale, al di là delle azioni dimostrative ed eclatanti (da Cortina d’Ampezzo in giù), che alla fine lasciano il tempo che trovano.
È vero, lo Stato ha bisogno di soldi e la spesa pubblica va ridotta. Ce lo chiede l’Unione Europea e al governo Monti va dato atto della determinazione con la quale sta perseguendo questo obiettivo. Però ci sono capitoli di spesa in cui si può tagliare (vogliamo parlare degli sprechi della politica?) e altri in cui converrebbe non farlo.
La scuola appartiene a quest’ultima categoria. Perché già penalizzata in maniera pesante dalle ultime leggi finanziare (a partire da quelle varate dal precedente governo). Nei momenti di crisi, per uscirne, in scuola, università e ricerca si deve investire, non tagliare. E valorizzare i professionisti di questi settori, invece di demotivarli ulteriormente, chiedendo loro sacrifici insostenibili.
Roberto Carnero