03/01/2013
L’occasione era troppo ghiotta, anche per due interisti: Pro Patria-Milan. Amichevole giocata in un pomeriggio algido ma luminoso di gennaio, negli ultimi scampoli delle feste natalizie. A due passi da casa mia, nella mia città, Busto Arsizio. Valeva la pena di prendere un giorno di permesso. Il biglietto, in tribuna centrale, costava 20 euro: ne ho presi due, uno per me, uno per mio figlio Niccolò, quattordicenne portiere della categoria Esordienti, appassionato di calcio. Avrebbe visto campioni come Boateng, El Sharawi, Abate, Ambrosini non solo in Tv o alla x-box, come avviene ogni sera, ma in carne e ossa, per una festa del calcio, nella mia città, allo stadio Carlo Speroni. Con quaranta euro ci saremmo sentiti come in tribuna a San Siro.
La Pro Patria è una squadra di antico lignaggio, anche se galleggia nelle retrovie da decenni: ha giocato in serie A, ha avuto grandi campioni. Entrare allo stadio Speroni, in quel catino ormai scalcinato, per me è un po' come visitare certi antichi palazzi veneziani affacciati sul Canal Grande, decadenti ma con un passato glorioso. Eppoi la Pro Patria ha la maglia più bella del mondo, così elegantemente ottocentesca, da Ballo Excelsior: strisce bianche e azzurre orizzontali, come i costumi da bagno dei signori con i baffi a manubrio della Belle Epoque. Anche i calzettoni fanno la loro parte. Ho sempre pensato che anche i suoi tifosi avessero diritto, per luce riflessa e passione, a un po' di quella eleganza bella e antica.
Fischio d’inizio. Avvio un po’ in sordina. Ma è pur sempre un’amichevole. Tifiamo Pro, ovvio, ma pregustiamo le azioni del "Faraone". Guardo davanti a me la piccola curvetta dello stadio. Soliti ultras, soliti cori. Una cosa penosa. E va bé. Ma quando tocca la palla Boateng, El Sharawi o Muntari, una trentina di tifosi, non di più, urlano ripetutamente “uh, uh, uh, uh”, come se fossero gorilla nella giungla. L’ho visto, anzi l’ho sentito fare anche a San Siro, ma qui è quasi un’ossessione. All'inizio cerco di non farci caso, poi la cosa diventa davvero fastidiosa e insultante. Non c’è una volta in cui i giocatori del Milan di carnagione scura, appena toccano palla, non vengano derisi da quei trenta imbecilli. Ma perché? Guardo mio figlio, che ha capito ed è infastidito come me, e faccio finta di niente, spero si concentri sulla partita.
A un certo punto, quel che doveva accadere accade. Una goccia fa tracimare tutto nel catino dello Speroni. Boateng, all’ennnesimo "uh, uh, uh", scaglia la palla in alto in segno di protesta. Poi si toglie la maglia e si avvia verso gli spogliatoi. Capitan Ambrosini guida il ritiro di tutto il Milan. Anche i giocatori della Pro li seguono verso bordo campo. E' finita. Game Over. Assisto alla scena sconcertato, dal mio posto in tribuna a venti euro, in mezzo a tanti spettatori sconcertati come me, e mi rendo conto che sono finito in pieno in un episodio di razzismo. Storico. Un episodio che finirà nei Tg, sulle prime pagine dei giornali, a cominciare da quelle rosa dalla Gazzetta. Che ci consegnerà negli annali del calcio a una sorta di "damnatio memoriae". A Busto Arsizio, città del Nord di fabbriche e ciminiere ormai buone solo per l'archeologia industriale. Il sindaco Gigi Farioli, in tribuna anche lui, è furioso e sembra morso da una tarantola. Inveisce contro quella minoranza che ha rovinato una festa, ma ce l'ha anche con Boateng, che non avrebbe dovuto abbandonare il campo. Mi dispiace, caro sindaco, non ci siamo. Quei cori erano ossessivi. Boateng ha fatto il suo dovere di campione. La malizia di chi sostiene che se non fosse stata un'amichevole non lo avrebbe fatto, non regge. Quei cori c'erano, stop. Le difese d'ufficio lasciano il tempo che trovano. Una minoranza di imbecilli ci ha consegnato all'album della storia sportiva come una farfalla infilzata con uno spillo e un cartiglio. E sul cartiglio c'è scritta la specie che ci classifica: "Razzista". Mio figlio apprende una lezione in diretta. Una lezione che non aveva ancora imparato a scuola: bastano trenta imbecilli per infangare l'immagine di una città di 80 mila abitanti. E' ingiusto. Ma è così.
Busto Arsizio, la mia città, la città che ha accolto i miei genitori venuti dal Sud, che ha dato loro un lavoro e un'opportunità per far crescere la mia famiglia, domani verrà trattata come una città al centro di un odioso episodio di razzismo sportivo condito di idiozia. Vedo uscire Boateng, capitan Ambrosini, Abate, Muntari e mentre attraversano il campo, istintivamente batto le mani. Batte le mani anche Niccolò, poi lo spettatore accanto a me, poi quasi tutti. Qualcuno sta zitto. La maggior parte no. Ci alziamo in piedi. Applaudiamo quei ragazzi con la maglia rossonera che han detto "game over". L’omaggio a quei campioni giustamente irritati e furiosi è doveroso. E gli applausi, speriamo riscattino l’immagine della città che amo. La città che è diventata un precedente storico per una parola odiosa: razzismo.
Il fiume di folla sciama deluso fuori dallo stadio. Mio figlio è disgustato, come tanti bambini e ragazzi dentro quello stadio. Il razzismo è cosa per grandi. Ma è ammirato per il gesto di Boateng, che ha avuto il coraggio di fermare il gioco per quella porcheria. Il razzismo non lo concepisce proprio. Ogni partita che gioca, ogni domenica, per lui è una festa dello sport, pura, pulita, divertemnte, esaltante. Io faccio strada verso la macchina tra la folla con la testa bassa e la faccia scura.
Francesco Anfossi