Iraq, un ritiro senza gloria

Le truppe Usa se ne vanno, restano 56 mila uomini di supporto. Ma il Paese è nel caos, il terrorismo è forte e la vittoria non è mai arrivata.

20/08/2010
Il presidente Barack Obama.
Il presidente Barack Obama.

E' comprensibile che Barack Obama voglia chiudere le due guerre, in Iraq e in Afghanistan, che furono aperte da George W. Bush. Negli Usa c'è la crisi, la disoccupazione è al 10%, la ripresa stenta, l'opinione pubblica è insoddisfatta e le elezioni di mezzo termine (in novembre) si avvicinano. Ma il ritiro delle truppe americane dall'uno e dall'altro fronte (dall'Iraq oggi, lasciando 56 mila uomini non combattenti che dovrebbero comunque tornare a casa a fine anno; dall'Afghanistan l'anno prossimo) somiglia poco a una vittoria. Anzi, sembra proprio una mezza sconfitta.

      In Afghanistan fu proprio il presidente Hamid Karzaj, qualche tempo fa, a dirsi preoccupato per un ritiro affrettato degli americani. E pochi giorni fa è stato lo stesso generale David Petraeus, comandante in capo delle forze Usa in Afghanistan dopo la traumatica defenestrazionem del generale McChrystal, a entrare in polemica diretta con la Casa Bianca, sostenendo che la data del ritiro era sì fissata ma da considerarsi non tassativa. Del resto si può capirli, se solo ricordiamo che dopo nove anni di operazioni militari lo scorso mese di giugno è stato il più sanguinoso per le truppe straniere (102 morti), mentre nei primi sei mesi del 2010 il numero dei civili feriti o uccisi è cresciuto del 31% rispetto al 2009 (1.200 morti e 1.997 feriti), mentre il numero dei bambini uccisi è cresciuto addirittura del 55% (176 morti e 389 feriti).

     E in Iraq? Più o meno accade la stessa cosa. Il mese di luglio 2010, con quasi 600 morti civili, è stato il più terribile degli ultimi quattro anni. L'esercito iracheno, che dovrebbe proteggere il Paese, viene regolarmente colpito dai terroristi: non a caso il generale Babaker Zebari, comandante in capo delle forze armate, ha detto che secondo lui gli americani dovrebbero fermarsi per almeno altri dieci anni.
 
    E ancora: a sei mesi dalle elezioni politiche, l'Iraq non ha un Governo, perché i due maggiori leader sciiti, il premier Nur al Maliki e l'ex premier Iyad Allawi, non riescono a mettersi d'accordo. Il partito di Maliki, a sorpresa, fu sconfitto da quello di Allawi (89 seggi contro 91 in Parlamento, sui 325 totali), ma non vuole permettere al rivale di formare il Governo. E mentre i Paesi confinanti osservano preoccupati o ingolositi, persino l'ex delfino di Saddam Hussein, l'ex ministro degli Esteri e vice-presidente Tarek Aziz, dal carcere di Baghdad dov'è rinchiuso prennuncia disastri dopo la partenza degli americani.

Due guerre non ancora concluse, con decine di migliaia di civili morti (in Iraq, secondo alcuni calcoli, addirittura 1 milione di morti, cioè il 4% della popolazione), in regioni tutt'altro che pacificate o democratizzate. Obama chiude con Bush ma i problemi restano aperti.

 

Fulvio Scaglione
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