05/04/2011
Racconta il buio della notte e la città immota, stretta dai puntelli che hanno trasformato il centro storico dell’Aquila in un immenso cantiere dove l’orologio si è fermato alle 3.32 del 6 aprile di due anni fa. Nemmeno sono state rimosse tutte le macerie e c’è chi ha calcolato che, continuando al ritmo attuale, non si finirà prima del 2079. Lei per tornare a casa sfila accanto ai cancelli che chiudono la zona rossa, in pratica tutto il centro storico. È l’unica abitante del cantiere cittadino.
Si chiama Maria Cristina Fiordigiglio. Abita in via Santa Chiara
d’Aquili, appena dietro la cattedrale, nell’unica casa rimessa a posto:
«Ma che fatica!». L’energia elettrica arriva dai pannelli solari, il
riscaldamento con le pompe di calore, l’acqua è quella del cantiere. Di
sera Maria Cristina gira con la pila tascabile. Potrebbe essere un
incubo abitare nel centro storico puntellato dell’Aquila. Ma lei spera
di essere un simbolo e un monito a due anni dal terremoto. Si affaccia
alla finestra, osserva l’opera immensa della messa in sicurezza che
abbraccia palazzi antichi e che ha trasformato i vicoli del cuore della
città in un grandioso sistema di cunicoli di acciaio e allarga le
braccia: «Ci vorranno decenni». Poi aggiunge: «Se si troverà un
accordo».
Eccolo il problema: l’accordo. Perché all’Aquila poco si discute sul
futuro e molto si litiga sul presente. Vola, il giornale della diocesi,
scrive che «il rischio di chiudersi a coltivare il proprio orticello» è
«la vera bestemmia contro il futuro della città» e questo è esattamente
il baratro verso cui «stiamo pericolosamente correndo». Osserva
monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo ausiliario dell’Aquila: «Si avverte
un senso di scoraggiamento che si diffonde soprattutto tra i giovani».
Insomma la ricostruzione è ferma, anzi quella “pesante” non è nemmeno
partita.
La gente avverte le divisioni, i contrasti, gli scontri costanti.
Considera con timore la mancanza di una direzione e con preoccupazione
guarda alla guerriglia tra le istituzioni: Comune contro commissario,
enti locali contro Governo e alla fine tutti contro tutti. Monsignor
D’Ercole adopera una parola che inquieta: «C’è troppa paura in giro e
quando i cuori s’attorcigliano sulla paura non è facile scovare
speranze». La questione è quella che indica il giornale della diocesi:
«Costruire o disperdere». Ecco il punto a due anni dal terremoto. Spiega
il vescovo D’Ercole: «Soffrono i giovani e gli anziani, che se ne vanno
e che si lasciano morire. Ormai qui si parla della città con
nostalgia».
Il vescovo gira per la città, partecipa ai dibattiti, è andato anche in
centro a raccogliere macerie con il popolo delle carriole, gesto di
sfida e di denuncia, ma dice: «Quando parlo con loro qualcuno scoppia a
piangere ed è un pianto di rimpianto». Chiede una moratoria: «Basta spot
sull’Aquila, da parte di tutti». Non intende giudicare nessuno, né
entrare sulla polemica che ha diviso il sindaco dal commissario.
Ammette: «Dopo qualche frizione ora la collaborazione tra la diocesi e
l’amministrazione è buona». Eppure concorda che l’annuncio delle
dimissioni del sindaco Cialente ha rimesso in pista analisi e
prospettive: «Ma occorre più lena, più serenità.
Il rischio è che della ricostruzione si occupino praticamente uomini
soli, senza lavoro di squadra». Lancia una proposta a due anni dal
terremoto: «Una santa alleanza, un impegno di tutti». E spiega: «Santa,
perché alleanza degli onesti, degli appassionati al bene della città. Il
problema non è la ricostruzione dell’esistente, ma la progettazione del
futuro della città. Oggi il progetto ancora manca».
Alberto Bobbio