14/07/2012
Il premier italiano, Mario Monti, negli Usa per partecipare alla Allen Conference. Foto Ansa. La fotografia della copertina, invece, è dell'agenzia Reuters.
Il "voto" passa da A3 a
Baa2, facendo ben due passi indietro. Moody’s declassa ulteriormente i titoli di Stato italiani. Che significa? Che secondo
l’agenzia di rating i titoli italiani sono diventati oggi più rischiosi rispetto agli ultimi mesi. Rischiosi significa, per essere chiari,
che lo Stato potrebbe non riuscire a pagarli. Se aumenta il rischio
di trovarsi con carta straccia in mano, i compratori chiederanno in
cambio tassi di interesse più alti. Questo significa che si fa
aumentare l’ormai famosissimo spread, cioè la differenza tra i
tassi italiani e quelli più bassi presenti sul mercato, quelli
tedeschi.
Ottimo risultato: Moody's invita al rigore
rimproverando all’Italia la vulnerabilità che la porta a pagare
tassi di interesse troppo alti e con le sue parole provoca
direttamente il fenomeno che lamenta.
Per fortuna i mercati sembrano aver
ignorato le parole dei nostri censori: l’asta dei titoli italiani
immediatamente successiva alla comunicazione dell’agenzia è andata
molto bene, con una domanda superiore all’offerta e senza
surriscaldare i tassi e le Borse non hanno risentito.
La sede dell'agenzia di rating Moody's, a New York. Foto Reuters.
Ma perché Moody’s dice che aumentano i rischi? L’analisi dell’agenzia esamina i risultati del governo Monti, ne fa gli elogi e nota che migliora il clima di fiducia. Ma - ecco l’elemento di rischio - ogni settimana che passa ci si avvicina alla data delle elezioni del 2013 i cui risultati sono ignoti.Ora, tralasciando la facile ironia riguardo al fatto che, per quanto possa apparire sgradita, l’incertezza elettorale è dovuta al suffragio universale libero, uno dei fondamenti della democrazia, ci si chiede se il timore dell’agenzia sia davvero cosi fondato. Sostenere che aumenta il rischio mentre l’Italia è impegnata in un percorso di riforme che hanno l’appoggio dell’opinione pubblica e, sia pure con più fatica, del Parlamento, solo perché ci si avvicina ad un momento futuro di decisioni che potrebbero essere prese male, equivale ad affermare che un atleta ha più probabilità di vincere una medaglia alle Olimpiadi quando si allena nei mesi precedenti, che il giorno della gara.
Ma ci si chiede anche se chi ci ha valutato con tanta severità abbia osservato lo stesso contesto che è sotto gli occhi dei cittadini (e risparmiatori) europei. Gli ultimi appuntamenti, infatti, hanno segnato un passo nuovo a identificare strumenti istituzionali che permettono di meglio intervenire in questa fase di crisi. Proviamo ad approfondire questo aspetto, senza dubbio il più importante per il futuro. Prima del Consiglio Europeo di fine giugno, cioè la riunione dei Governi dell’Unione, la tensione era palpabile. Molte voci avevano accusato la Germania che, preoccupata della sostenibilità del debito dei Paesi più vulnerabili, proponeva il contenimento delle loro spese attraverso politiche restrittive (licenziamenti del personale pubblico o almeno blocco del turn over tra pensionamenti e nuove assunzioni, tagli alle dotazioni dei ministeri) che avevano però come risultato quello di strozzare l’economia, creando situazioni pesanti sul piano sociale, tensioni su quello politico e, non ultimo, riducendo – proprio in ragione della recessione economica cosi provocata – le entrate dello Stato rendendo cosi ancora più difficile il pagamento dei debiti pregressi.
Alla Germania si contestava non solo di proporre politiche inefficaci, ma di rallentare con i suoi veti l’attuazione degli strumenti da attuare per fronteggiare la crisi, facendo il gioco degli speculatori che acquistano i titoli screditati (che pagano tassi di interesse elevati) contando sul fatto che prima o poi l’Europa interverrà a salvare i paesi in difficoltà, annullando il ‘rischio’ dell’investimento. Ciò che è puntualmente avvenuto in questi ultimi due anni. Il Consiglio Europeo e il seguente Ecofin, cioè la riunione dei ministri dell’Economia dei paesi dell’Unione, preceduta da quella dell’Eurogruppo (i soli ministri economici dei Paesi dell’aera Euro), hanno trovato un'intesa importante per il passaggio dall’attuale Fondo di stabilità finanziaria europeo (Efsf)) al Meccanismo di stabilità europea (MSE/ESM),non più solo un fondo, ma un sistema di regole e strumenti per intervenire in caso di crisi, affidando alla Banca centrale europea (Bce) un ruolo rilevante sia nella raccolta di informazioni che permettano di giudicare la effettiva necessità dell’intervento, sia nell’agire direttamente acquistando titoli di paesi in difficoltà che chiedono la solidarietà europea.
Si tratta di ciò che in queste settimane è stato chiamato giornalisticamente lo scudo anti spread. Le difficoltà tedesche, olandesi e finlandesi sono state superate e l’Europa ha mostrato coesione e autorevolezza. Ma non c’è solo debito sovrano, cioè quello degli Stati. In Europa il vero malato grave è costituito dalle molte banche che sono state gestite in passato con spregiudicatezza e che oggi, avendo drogato il loro patrimonio con indigestioni di finanza derivata, hanno consistenti rischi di stabilità. Gli organismi europei hanno varato un calendario per dotarsi di uno strumento comune di vigilanza europeo, coinvolgendo anche in questo caso la Bce, che permetta di intervenire con rapidità e rigore, utilizzando lo stesso Mse.
Come succede spesso, già l’intesa preliminare è un fatto politico ed è ciò che cittadini e mercati attendevano. Primo esempio, sia pure ancora fuori del futuro Mse, è la messa a disposizione di 30 miliardi per il sistema bancario spagnolo. Infine è stata approvata la proposta di dotarsi di Project Bonds europei che saranno usati per finanziare grandi interventi strutturali di interesse nazionale e regionale. Insomma dopo un lunghissimo tempo di attesa, grazie anche al nuovo quadro politico francese e italiano, l’Europa dà segnali positivi.
La sede della Banca centrale europea (Bce), a Francoforte, in Germania. Foto Reuters.
Rimangono due preoccupazioni per l’immediato futuro. La prima è quella di una generale vulnerabilità del mondo bancario, a cui si sta cercando di rispondere con gli strumenti di cui abbiamo accennat e con una proposta di direttiva della Commissione presentata pochi giorni fa. La seconda è la approvazione del Meccanismo di stabilità europeo (che prevede impiego di fondi pubblici nazionali ma decisioni europee) alla Corte Costituzionale tedesca, normalmente molto rigida in ogni caso di cessione parziale di sovranità.
Nelle prossime settimane si vedrà se la Corte di Karlsruhe darà semaforo verde o inibirà le buone scelte europee. Nel frattempo osserviamo con preoccupazione le prime conclusioni della procura di Trani che ha avviato una indagine per verificare se nel comportamento delle agenzie di rating possa configurarsi il reato di aggiotaggio, cioè la diffusione di informazioni tendenziose con lo scopo di ottenere aumenti o riduzioni dei prezzi o dei valori di borsa o dei loro interessi, ovviamente per poterne beneficiare anche indirettamente. E’ l’ennesima vicenda di questo tipo, che segue di pochi giorni lo scandalo dei tassi Libor, il tasso definito dalle maggiori banche internazionali che influenza l’intera struttura dei tassi di interessi internazionali, modificato artificialmente per poterne trarre vantaggio.
Ci auguriamo che le indagini non rivelino alcuna responsabilità penale. Rimane la grave perplessità nei confronti di un sistema finanziario che nei fatti è estremamente vulnerabile, sempre più alla mercè delle parole e delle azioni di una oligarchia (agenzie di rating o grandi operatori) che può disporre delle informazioni discrezionalmente a proprio beneficio, senza cura del bene della comunità.
Riccardo Moro, economista, docente di Politiche dello sviluppo, Università Statale, Milano