09/07/2011
La sede della Mondadori, a Segrate (Milano).
I giornali la chiamano “la guerra di Segrate”. Un conflitto che si trascina ormai da oltre 20 anni. Di cui l’Italia, in un modo o nell’altro, rischia di rimanere ostaggio. Lo si è visto anche col maldestro tentativo del Governo di sospendere il risarcimento per il caso che ruota intorno al Lodo Mondadori, con un codicillo nascosto nella Manovra. Ma è solo uno dei numerosi esempi che sono arrivati da una parte e dall'altra del fronte. A capitanare gli eserciti di questa "guerra dei vent'anni" due dei massimi protagonisti della storia recente del Paese: Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Il primo all'epoca è un giovane imprenditore edile che ha inventato la tv commerciale nazionale e ha costruito un impero televisivo privato. Il secondo è stato socio di Gianni Agnelli e dopo un’avventura finita male nel Banco Ambrosiano con Roberto Calvi ha conquistato l’Olivetti. Inoltre controlla, insieme al principe Carlo Caracciolo, cognato dell’Avvocato, il gruppo L’Espresso-Repubblica e molto altro.
Il Cavaliere e l’Ingegnere, li chiamano. Insieme con il terzo protagonista, l’Avvocato, spiccano nel panorama economico e finanziario degli anni ’80. La loro visione politica è in competizione: vicino ai socialisti e amico di Craxi il Cavaliere, noto per le sue idee progressiste l'Ingegnere. In palio c’è il controllo della storica casa editrice fondata da Arnoldo Mondadori: libri, giornali, pubblicazioni di ogni tipo. Internet è ancora di là da venire e la carta stampata ha ancora un grandissimo potere, seconda solo alla televisione. Berlusconi mira da tempo a questo immenso tesoro mediatico. Vuole fonderlo con il Giornale di Montanelli, che già possiede, e la sua formidabile "armada televisiva". All’inizio della guerra siede già nel consiglio di amministrazione della holding di Segrate avendo rilevato le azioni di Leonardo Mondadori. Ma il ruolo gli va stretto. “Non mi va di stare sul sedile di dietro mentre quell'altro guida”, dice in un’intervista. Punta alla presidenza, detenuta da Carlo De Benedetti.
Nel 1989 l’altro ramo degli eredi di Arnoldo Mondadori, quello della famiglia Formenton, con una decisione a sorpresa, consuma lo strappo con De Benedetti e si allea con il Cavaliere, decidendosi a vendergli il pacchetto azionario. E così Silvio Berlusconi, che ha 53 anni, raggiunge il suo obbiettivo, impossessandosi di un impero editoriale che comprende il gruppo Repubblica-Espresso, 15 giornali locali Finegil, il newsmagazine Panorama, una miriade di periodici e la storica casa editrice italiana, punto di riferimento del mercato librario e culturale. Si può dire che con la conquista della Mondadori inizia quello che gli storici chiamano il berlusconismo, un periodo che stiamo ancora vivendo e di cui Berlusconi è naturalmente l'eponimo. Anche allora la stampa percepì che si stava entrando in un'altra epoca. Le cronache di allora raccontano come un trionfo la sua visita al palazzo di Niemeyer, a Segrate, dove regalerà due biglietti per andare a vedere il Milan a un entusiasta fattorino rossonero e proferirà una battuta al bar della Mondadori che rimarrà celebre: “Qualcuno dei signori giornalisti può offrirmi un caffé, per favore? Chiedo scusa, ma ho speso tutto per comprare la Mondadori!”. L'Italia, quella parte che non si era ancora accorta di lui, scopre definitivamente Berlusconi.
Silvio Berlusconi e Bettino Craxi ai tempi della conquista della Mondadori.
Carlo De Benedetti la prende con meno humour. Tra i due c’è un’antichissima ruggine. Non accetta la sconfitta: sostiene che c’era un patto coi Formenton. Secondo l’Ingegnere la famiglia si era impegnata a cedere il suo pacchetto azionario alla Cir, la holding della famiglia De Benedetti, entro il 30 gennaio 1991 e quindi non poteva cederlo alla Fininvest di Berlusconi. La questione finisce davanti a un collegio arbitrale di tre giudici. Il celeberrimo lodo che prenderà il nome della casa editrice, il 20 giugno 1990, dà ragione all’Ingegnere: il patto coi Formenton resta valido e non poteva essere disatteso. Il pacchetto azionario Mondadori dunque deve tornare al patron dell’Olivetti.
Il lodo viene impugnato dalla Fininvest di fronte alla Corte d’appello di Roma. Giudice ed estensore della sentenza è Vittorio Metta. Il verdetto emesso il 24 gennaio 1991 dà ragione alla Fininvest e il lodo viene annullato. La Mondadori ritorna al Cavaliere. Ma nelle redazioni e nel mondo politico si scatena una mezza rivolta. Berlusconi evidentemente ascolta chi gli consiglia di vincere ma di non stravincere, come ammonisce il grande generale cinese del quinto secolo avanti Cristo Sun Tzu nell’Arte della guerra. Il suo trionfo ha irritato tutta la democrazia cristiana, con cui il Cavaliere ha sempre avuto sempre un buon dialogo e rapporti, se non di amicizia, di non ostilità (tranne che con De Mita e la sinistra Dc, tra cui i famosi ministri che si rifiutarono di firmare il decreto che riaccendeva le Tv Fininvest). Alla fine Berlusconi scende a patti. La tregua viene firmata nell’ufficio di Giuseppe Ciarrapico. Andreotti infatti è preoccupato che lo strapotere dell’imprenditore amico di Craxi stravolga gli equilibri politici del Caf. La spartizione prevede che Repubblica, l’Espresso e i giornali Finegil restino all’Ingegnere, tutto il resto al Cavaliere, che già possiede il Giornale e l’impero televisivo commerciale.
Silvio Berlusconi alla presentazione della Manovra economica.
Ma intorno alla sentenza c'è puzza di bruciato. Le voci di brogli si susseguono. Tra queste c’è quella di Stefania Ariosto, futura “testimone Omega “ della procura di Milano, che nel 1995 avvia un’indagine sulle vicende. Comincia una stagione di inchieste e processi che si conclude il 23 febbraio 2007 con una sentenza definitiva: corruzione. La sentenza che dava ragione alla Fininvest è stata comprata, dice il Tribunale. Condannati gli avvocati Cesare Previti, Giovanni Acampora, Attilio Pacifico e il giudice estensore Vittorio Metta. La sentenza di annullamento del Lodo Mondadori per i giudici fu addirittura stilata “sotto dettatura” per avere un verdetto più favorevole prima che i giudici di Roma entrassero in camera di consiglio. Come è prassi, chiuso il versante penale, si apre quello civile.
Nell’autunno 2009 la sentenza con cui il giudice Raimondo Mesiano (quello poi finito nei tg Mediaset e sbeffeggiato perché fuma una sigaretta su una panchina e porta i calzini turchesi) condanna il gruppo del Biscione a risarcire la Cir di Carlo De Benedetti di una somma di 750 milioni di euro (per la precisione 749.955.611,93 euro). Una cifra enorme, calcolata attraverso un meccanismo che contempla la perdita di opportunità economiche (per la precisione una danno patrimoniale da “perdita di chance” della Cir moltiplicate per il numero degli anni trascorsi). Il resto è storia di ieri, con il maldestro codicillo contenuto all’interno della Manovra mirante a sospendere l'esecutività di “ogni risarcimento oltre i 10 milioni in primo grado e oltre i 20 in appello” (e quindi anche quello del Lodo Mondadori) fino alla pronuncia della Cassazione, poi ritirato per la ferma opposizione del Quirinale. Infine la sentenza di appello, che fissa il risarcimento in 560 milioni e che sarà esecutiva, come recita la legge. E che - c'è da giurarci - non è l'ultimo capitolo di questa storia privata che riguarda tutti. Su cui aleggia una domanda che rimarrà senza risposta, perche la storia non si fa con i se: come sarebbe l'Italia se il Tribunale di Roma non avesse annullato il Lodo Mondadori e la casa editrice di Segrate fosse rimasta a De Benedetti?
Francesco Anfossi