25/10/2010
L’Italia, contaminando realtà differenti, scende in piazza sempre più spesso, dai pastori sardi, ai ricercatori universitari, dagli studenti alla Fiom, passando per Terzigno dove la vicenda è caldissima e tendente all’aggressività. Stiamo reagendo a una crisi profonda o siamo sull’orlo di una crisi di nervi?
«Siamo nella perfetta normalità. La storia d’Italia tutta è una storia di movimenti di piazza, di strada. La piazza è luogo di incontro dei manifestanti più diversi e magari contraddittori tra loro. Strani, semmai, sono stati gli ultimi anni, anni di addormentamento rispetto a questa tendenza, la quale, al di là di singoli episodi violenti o di infiltrazioni, è un fenomeno positivo. Già il termine manifestazione è positivo, indica che la gente manifesta, rende esplicite, passioni, indignazione, partecipazione».
È un momento caldo, non solo in Italia…
«Si guardi a quanto sta accadendo in Francia in questo momento: una mobilitazione generale a partire dal tema sempre caldo delle pensioni che si è estesa agli studenti. È un fatto fisiologico: la democrazia è confronto e conflitto. Anomalo è il fatto che si sia affermata, sostanzialmente per responsabilità della televisivizzazione della politica, una idea passiva dei comportamenti sociali, in cui uno vota una volta ogni quattro anni e poi si addormenta, mentre la fisiologia della democrazia è il confronto. Si pensi anche a quello che avviene, in modo diverso, con i Tea Party negli Stati Uniti. Ci sono sempre cascami violenti, ma gli altri sono segni positivi del risveglio da un lungo sonno».
Un risveglio positivo, dunque, ma perché ci siamo addormentati?
«Io penso al rincretinimento dovuto alla Tv, alla fruizione passiva che essa comporta. La Tv in sé non è un male, ma lo diventa quando rimane sola, quando non ha più attorno altri luoghi di dibattito, siano essi sezioni di partito, circoli culturali o altro».
È un fatto tipico di casa nostra?
«C’è un motivo specifico tutto italiano in questo: sta nel tentativo di uccidere la democrazia rappresentativa. L’aver abrogato il sistema proporzionale, l’aver abrogato le preferenze, l’avere fatto sì che tutti gli eletti siano di nomina di gruppi ristrettissimi se non di una singola persona, ha tolto alle articolazioni sociali, a quelli che nel mondo cattolico si chiamavano “i corpi intemedi”, la possibilità di avere una rappresentanza. Oggi abbiamo un ceto politico che si è autoristretto toccando le regole della democrazia: si prenda il Governo attuale o anche il precedente, dicono: noi che siamo stati investiti del mandato della maggioranza. Ora Berlusconi e i suoi hanno preso il 35% dei voti sul totale dell’elettorato e nel Governo precedente Prodi e i suoi avevano il 31%: stiamo parlando di una democrazia in cui le scelte in realtà vengono fatte da una minoranza, che non dà voce alle istanze contraddittorie e magari sbagliate della società».
Perché è problematico questo, anche quando si tratta di voci molto minoritarie?
«Perché le voci che non hanno modo di eprimersi si incattiviscono. L’assenza di rappresentanza è una minaccia per la democrazia, perché la democrazia è una teatralizzazione del conflitto, è una invenzione nata in Europa, in risposta a conflitti reali e violenti, quando si ammazzavano tra cattolici e protestanti nella guerra dei Trent’anni, con genocidi di massa. Anche in democrazia parlando si usano tematiche belliche: “l’avversario”, “vincere”. “schiacciare”, ma c’è una bella differenza tra mimare la violenza ed esercitarla».
Può funzionare con ogni forma di dissenso?
«Anche il mondo cattolico che per secoli ha avuto una grande difficoltà a capire questo, ha trovato una progressiva assunzione della democrazia come la modalità ottimale per esprimere la militanza sociale delle persone che hanno uno spirito religioso. C’è stato
un matrimonio tra cattolicesimo e democrazia, di cui Famiglia cristiana a mio avviso è un’espressione eccellente, che implica quattro cose: il diritto dell’altro ad esprimersi, la grande forza nell’affermare i propri valori, il conflitto tra opinioni diverse e confessioni diverse mantenuto all’interno di un sistema di regole condivise e un generale orientamento della società a essere, come si dice oggi con termine sociologico, inclusiva, di cui ciascuno - pur dissentendo dalla maggioranza -si sente parte».
Fino a che punto la conflittualità teatralizzata riesce a impedire quella armata?
«Al di là di quello che pensano i reazionari, la protesta di piazza è positiva perché funziona come la valvola di sfogo che impedisce alla pentola a pressione di esplodere: il dissenso non violento è la migliore soluzione al rischio che il dissenso represso esploda con violenza difficile da controllare».
Che cosa difende chi protesta?
«Sono persone che si preoccupano per il futuro, in un modo o nell’altro: gli abitanti di Terzigno, che abbiamo ragione o no, e da quel che ho capito ce l’hanno, sono madri e padri che, al di là delle infiltrazioni camorristiche che sono drammatiche, manifestano preoccupatissime per la salute propria e dei loro figli. Anche il mondo della scuola, che oggi vive tra l’altro uno dei momenti meno politicizzati della propria storia, non può non avvertire il disastro di una sedicente riforma, mentre stiamo assistendo alla distruzione del futuro delle giovani generazioni attraverso il progressivo soffocamento della scuola, che è il primo e più democratico strumento di mobilità sociale. Che possibilità ha il figlio di un poveraccio? L’unica è andare bene a scuola, farsi apprezzare, procurarsi una borsa di studio e provare a entrare nei segreti ambienti della classe dirigente. La mobilità sociale verticale ascendente, come diciamo noi sociologi, cioè la possibilità di migliorare la propria posizione sociale, parte prevalentemente dalla scuola».
Ci sono altri risvolti positivi, decompressione a parte?
«Che possa essere condivisibile o meno la singola causa, che possa essere condiviso il metodo, la protesta è un modo di manifestare, che è meglio che tenere dentro, il rododendro della depressione: meglio sputar fuori le cose, anche nella coppia, in famiglia, meglio esprimersi. Il dissenso che si esprime sfoga tensioni, impedisce alla bomba sociale di esplodere, non solo segnala i disagi che ci sono, serve alla politica intelligente come rilevatore di domande inevase».
Non tutti sono così propensi all’ascolto, che cosa comporta di negativo la rassegnazione?
«Il male maggiore degli ultimi anni è l’impoverimento culturale ed etico della grande massa della popolazione che è molto legato alla passività, di mancanza di mobilitazione si muore tutti. Non per niente papa giovanni paolo secondo ha sempre prestato grande attenzione ai movimenti giovanili, anche rischiosi per le istituzioni, incontrava milioni di giovani perché si rendeva conto che la passività che poi vuol dire non porsi le grandi domande sul senso della vita è pericolosissima, non demonizzo la Tv, ma la manzanza di alternative: servono altri momenti: il momento del silenzio, della riflessione, della preghiera, dell’urlo, del fischiare».
C’è chi giudica già eversive le proteste troppo rumorose...
«Mi fa ridere chi bolla quelli che fischiano un sindacalista come terroristi, perché qualunque sindacalista serio si è sempre preso i fischi di qualcuno, fa parte del mestiere, andare in piazza vuol dire avere gente che consente e gente che dissente. Mi si lasci rubare per un istante il mestiere ai sacerdoti, visto che ho anche se non sono cristiano ho l’abitudine di leggere il Vangelo: oportet ut scandala eveniant, mi si dica come si possa far scandalo senza rumore. Quello di Gesù Cristo è stato un invito ad alzare la voce, a farsi sentire, a dire dei no, lo dico da laico di origine ebraica, non ricordo che il Cristo abbia sussurrato davanti ai mercanti nel tempio: ha gridato, dal potere romano era considerato un eversore. Sovvertiva. È interessante per questo aspetto la figura storica di Gesù. Il potere romano, contrariamente, a quello che molti pensano era piuttosto tollerante, purché nessuno manifestasse, purché ciascuno si facesse i fatti propri. È bastato che uno dotato di spirito profetico alzasse la voce perché questo turbasse l’ordine costituito. Eppure il potere romano non è stato intollerante: lasciava che ciascuno si curasse i propri dei, in genere al plurale, lo scandalo viene quando qualcuno alza la voce e parla nel nome del bene comune, nel nome dell’umanità».
Ecco appunto: oggi Italia e Francia, la scorsa estate la Grecia, la protesta è contagiosa?
«Non necessariamente, ma in questi casi ci sono situazioni in comune. Tutti i paesi citati sono in arretramento economico, i miserandi si oppongono poco, mentre si fanno sentire con più forza quelli che hanno avuto qualcosa e lo perdono: per noi umani perdere qualcosa è più grave che non averlo mai avuto. Noi ci lamentiamo per perdere delle tutele per esempio pensionistiche che per uno del Camerun o dell’Uganda sarebbero un sogno irraggiungibile. Questo determina rabbia, anche pericolosa che può anche tracimare, io teorizzo i flussi d’acqua nel letto dei fiumi, so bene che possono determinare pericolose alluvioni».
È solo una questione materiale?
«Due cose determinano la rabbia: la disperazione materiale che sta innegabilmente crescendo, e la diserazione etica, che non è più una questione di reddito, di soldi, ma della sensazione di una totale impotenza, perché il male con “m” maiuscola o minuscola domina ovunque. È chiaro che non è questo il caso, però se si riflettesse su forme di virulenza molto forti si scoprirebbe che non tutto è portafoglio».
C’entra qualcosa la fatica di immaginarsi un futuro?
«Molto, è quella che io chiamo la malattia del futuro, restano dei privilegiati, me incluso, ma studiando questo paese vedo che, per dirlo con una battuta stupenda scritta su un muro da un anonimo, "non c’è più il futuro di una volta". Si pensi all’assenza di speranza di troppi giovani, che si sentono come topolini in una scatola senza via d’uscita. Noi siamo animali culturali, non soffriamo solo per motivi materiali ma anche culturali, etici, e non tutti hanno la forza di trovare dentro di sé nella fede una via d’uscita. Persino Madre Teresa e Cristo sulla croce hanno avuto un momento di buio. La disperazione di Cristo sulla croce è un momento di valore umano universale che non può non colpire profondamente anche un non cristiano quale io sono».
Siamo a quel punto di disperazione?
«Per fortuna no. Nel caso attuale direi che la protesta nasce dall’assenza di speranza terrena e dalla difficoltà materiale, due cose non del tutto disgiunte se è vero che dalla difficoltà materiale nasce la preoccupazione di non poter mantenere i propri figli, la non possibilità di sposarsi o di avere un bambino. Alla fine ciò che è economico e diventa spirituale: come corpo e mente sono strettamente connessi così non c’è solo materia e non c’è solo spirito».
Elisa Chiari