09/05/2011
Wouter Weylandt. Noi vogliamo ricordarlo così.
In morte di un ciclista del Giro d'Italia, il belga Wouter Weylandt, 27 anni, sua una tappa lo scorso anno, si rischia la retorica facile o la non retorica facilissima. Le lacrime ufficiali cioè, con tante belle parole e l'invito a tutto lo sport di spartire il dolore del mondo della bicicletta, o la critica ad una disciplina già massacratissima dai moralisti, che la usano per scaricarsi la coscienza, per esempio caricandole addosso tutte le colpe del doping (e chissà che qualcosa non venga insinuato anche adesso), ed evitando così di dover pensare che in altri sporti il doping “non c'è” soltanto perché non c'è un vero controllo antidoping.
I farisei diranno poi che certe immagini non dovevano essere mandate in video, quando in realtà si è trattato di pochissimi secondi di una sequenza non prevedibile, inevitabile in una diretta, e comunque meno drammatica, per chi ha sensibilità vera, di quella dei poveracci che affogano cercando libertà e pane, pe non dire di altre cosacce che si mostrano in nome del diritto di cronaca. Usare il sangue del ciclista per indignarsi di meno per i naufraghi della miseria e della dittatura è operazione bieca, che magari proprio per questo verrà condotta: e magari ai ciclismo si rimprovererà di continuare la corsa (che deve continuare), mentre si sono tranquillamente accettate finzioni macabre, ad esempio nel mondo dei motori, per dire di piloti feriti quando invece erano morti e non dover correre il rischio che lo show miliardario venisse interrotto.
Per noi è stata fatalità, pura e tremenda fatalità che comunque ii ciclisti sanno mettere in conto. Il casco ha tenuto, anche se leggero (e d'altronde non si può pretendere che si pedali calzando il casco integrale come chi sta seduto in un'auto o su una moto, lasciando “faticare” il motore). Fatalità che il ciclismo ha già affrontato, basti pensare alle morti al Tour de France dell'inglese Simpson nel1967 e del nostro Casertlli nel 2005 (tre sciagure mortali di pedalatori sinora al Tour, c'era stato nel1935 lo spagnolo Cespeda, così come tre morti al Giro, ci sono già state nel 1976 quella di Santisteban spagnolo e quella nel 1986 di Ravasio italiano). Fatalità che il mondo della bici affronterà da subito: la prossima tappa verrà corsa, in sordina o no, qualcosa sarà fatto dai corridori per celebrare il fratello morto, ricordiano al Tour 1967 un arrivo senza volata, l'inglese Hoban connazionale e amico di Simpson mandato avanti a vincere, e una cosa simile avvenne dopo il dramma di Casaartelli.
Nel calcio non si cancellano le partite neanche quando i morti si contano a decine sugli spalti (l'Heysel, in Belgio), neanche quando un giocatore muore sul campo (Curi, da noi). In formula 1 sono ormai troppi gli interessi perché si possa pensare ad una gara annullata per un lutto. La formula dell'andare avanti per onorare con l'impegno sportivo chi è morto funziona sia per gli ipocriti che per i puri: ma solo nel secondo caso ci pare onesta, sincera, accettabile, auspicabile, spartibile. Onore ad un ragazzo caduto nello sport, faticando come una bestia per guadagnare in un anno quanto un calciatore celebre, gonfiato in tutti i sensi, compreso quello chimico, guadagna in una settimana.
Gian Paolo Ormezzano