Nessuno fermerà la Primavera araba

Parla Mostefa Souag, direttore di Al Jazeera: siamo arrivati al punto in cui le popolazioni devono ribellarsi per sopravvivere. E' solo questione di tempo.

10/09/2011
Mostefa Souag, direttore di Al Jazeera.
Mostefa Souag, direttore di Al Jazeera.

"Oggi siamo arrivati al punto in cui le popolazioni arabe sentono che ribellarsi è una necessità: la democrazia è legata alla loro stessa sopravvivenza". Non ammette dubbi la "profezia" di Mostefa Souag, direttore delle news di Al Jazeera, il più grande network d'informazione del mondo arabo, ospite al Festival della letteratura di Mantova. Formatosi fra Algeri e Washington, sposato con un'americana, da cui ha avuto tre figli, in un incontro con la stampa Souag ha tolto i veli all'emittente araba, così spesso al centro di polemiche, attaccata tanto dall'interno dell'universo musulmano quanto dall'esterno, cioè dalle nazioni occidentali. "Noi facciamo informazione, nel modo più professionale e oggettivo possibile, dando voce a tutti", spiega il giornalista.


- Dal suo osservatorio privilegiato, come interpreta la Primavera araba che ha scosso alcuni Paesi arabi dell'Africa?
"La necessità del cambiamento e la creazione di un regime democratico sono ormai inevitabili, perché il grado di corruzione, oppressione e miseria della gente ha raggiunto livelli intollerabili. Non dimenticate che spesso si tratta di Paesi ricchi, pieni di risorse, ma con Governi pessimi che hanno ridotto alla fame buona parte della società, spesso costretta a buttarsi sui barconi rischiando la vita per avere una speranza. E' solo una questione di tempo: non ci dobbiamo domandare se avverrà, ma quando avverrà. Tanto più oggi che l'esempio delle popolazioni che si sono ribellate è davanti agli occhi di tutti. La Primavera che sta investendo il mondo arabo non è una moda. Se non arriveranno rapidamente riforme radicali, la gente si ribellerà dovunque".

- A suo giudizio, come hanno raccontato questo fenomeno i media occidentali?
"Credo che da tempo stiano tentando di presentare il Medio Oriente in modo equilibrato, eppure  gli sfuggono ancora troppe cose, in parte perché la loro conoscenza di quel mondo è limitata, in parte perché non parlano la lingua. La domanda è: fino a che punto i giornalisti occidentali hanno l'umiltà di ammettere che non capiscono questa cultura? Mi è capitato di conoscere inviati occidentali che parlavano esclusivamente con le élite dei paesi musulmani, lontane dal popolo, occidentalizzate, facendosi così un'idea del tutto inverosimile della realtà. Poi esistono i pregiudizi, magari innocenti, ma forieri di errori".

-  Dieci anni fa, foste criticati per la "brutalità" con cui raccontaste l'11 settembre. Oggi si comporterebbe alla stessa maniera?
"Certo. Allora gli Stati Uniti ci criticarono, oggi riconoscono che lavorammo con estrema professionalità. Piuttosto bisognerebbe riflettere su come i Governi si siano concentrati troppo sulla sicurezza. Bin Laden è morto, ma sembra che alcune nazioni occidentali ci tengano a tenerlo in vita, per mantenere la gente nella paura. All'indomani dell'attacco, i leader occidentali promisero che lo stile di vita dei loro Paesi non sarebbe cambiato. E' evidente a tutti che le cose non sono andate così, molte restrizioni alle libertà sono state imposte e accettate".

- Come è organizzata Al Jazeera?
"La sede centrale è in Qatar. Il canale arabo conta 160 fra giornalisti e produttori. Abbiamo 70 uffici nel mondo, per un totale di 450 dipendenti. Al momento le giornaliste sono poche, perché, fino a 10 anni fa, era un mestiere riservato esclusivamente agli uomini. Oggi stiamo cercando di aumentare il numero delle professioniste. I nostri giornalisti devono parlare l'arabo, l'inglese e possibilmente altre lingue: per noi sono un elemento fondamentale. La Primavera araba ha bloccato un nostro piano di sviluppo, che prevedeva l'apertura di 14 nuovi uffici, di cui sette in Africa. Nostri corrispondenti sono stanziati in ogni parte del mondo, non solo musulmano, e i nostri inviati raggiungono i punti caldi del pianeta per raccontare quello che sta accadendo".  

Paolo Perazzolo
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