22/08/2011
L’estate politica ferragostana da vent’anni a questa parte appartiene a Umberto Bossi. Era lui che approfittando della chiusura delle Camere, con una pattuglia di inviati speciali al seguito (tra i quali citiamo il compianto, bravissimo, Guido Passalacqua), si divertiva, tra una partita a calcetto e un comizio nei raduni leghisti di montagna, a “epater les bourgeois” , a stupire tutto e tutti, irrompendo nella scena mediatica con battute, minacce e canottiere. Le sue sparate di barbaro della politica hanno fatto la storia della Seconda Repubblica e la gioia dei giornali. Ma quest’anno il Senatur pare il cavaliere inesistente di Calvino. Attraversa come un’ombra la scena politica, spesso fuggendo dai suoi contestatori (come è avvenuto in Cadore), stanco, debole, disincantato, protetto dal suo “cerchio magico” di “famigli” e pretoriani, mentre il resto dei colonnelli della Lega cospira nel silenzio prefigurando il dopo-Bossi e la base del Carroccio si pone il problema se votare ancora Lega o no. Basta ascoltare Radio Padania o leggere su Facebook i commenti dei padani arrabbiati.
Al Nord infatti, come è noto, sono svelti a far di conto. I dubbi già emersi con le contraddizioni del federalismo (con le tasse che anziché diminuire aumentavano) si sono trasformati in certezze con le ultime due Manovre finanziarie, un salasso impressionante per tutte le famiglie del Nord, unito alla cancellazione di molte Province e dei piccoli Comuni, ovvero del tessuto molecolare dell’autonomismo politico. A ben vedere, nella prospettiva dei lumbard, la Manovra di luglio e la Manovra-bis sono quanto più centralista e meridionalista possa esserci. Due colpi di maglio devastanti dello Stato centralista. Il guerriero stanco Bossi - intrappolato tra le esigenze dellla realpolitik che lo costringono, in quanto alleato di Governo, a fronteggiare una crisi globale senza precedenti - tutto questo lo ha capito. Ha salvato dal salasso fiscale artigiani, commercianti e pensionati (almeno finora). Ma per il resto non sa più cosa inventarsi, a parte il solito repertorio di contumelie e gestacci.
La sua canottiera non è più il simbolo orgoglioso dell’indipendenza popolana dei lumbard esibita in Costa Smeralda alla corte del Gran Visir Berlusconi, ma assomiglia a qualcosa di patetico, di donchisciottesco. Biascica battute volgari e offensive all’indirizzo dei colleghi di governo. Prefigura una Padania che non rappresenta “il domani” ma “il dopodomani”, in una visione utopistica, quasi escatologica. Un sogno di una notte di mezza estate in cui ormai crede solo la sua mente visionaria. Quello che colpisce è questa specie di nemesi, di legge del contrappasso storico che sembra emergere nell’osservare l’autunno del movimento-partito più longevo del Parlamento. La Lega è nata con la globalizzazione che ha sostituito le ideologie con le identità e le appartenenze locali. Ma globalizzazione significa anche irruzione delle dinamiche economiche e finanziarie mondiali nel locale. Un battito di farfalla in Cina può diventare un terremoto a Cassano Magnago. E ora la Lega, che senza il suo fondatore non può stare ma che con il suo fondatre non riesce a rimanere, rischia di morire o quantomeno di disgregarsi, proprio per effetto della globalizzazione.