09/11/2012
Sandro Mazzola negli anni '70.
Compie 70 anni Sandro Mazzola, la bandiera dell’Inter di Herrera, l’uomo della staffetta con Gianni Rivera. Rammenta partite e trattative, snocciola aneddoti e intrecci.
- Sandro, come nasce il vezzo dei baffi?
“Nel ’66. Me li feci crescere, per scaramanzia, a patto di vincere scudetto o coppa dei Campioni, arrivò il titolo in campionato e non li rasai più. Ero molto amico di Gigi Meroni, scomparso 45 anni fa in un incidente stradale, in un Inter-Torino ci guardammo in cagnesco: “Prima io”, “No, prima io”, per stabilire chi li avessi adottati prima”.
E il sigaro?
“Da dirigente, su suggerimento del giornalista Franco Mentana, compianto padre di Enrico, direttore de La7. Negli anni ’60 era agli inizi, con la Gazzetta dello Sport, viaggiava su una scassatissima 1500, spesso mi dava un passaggio, per andare all’allenamento, facendomi risparmiare le 25 lire di due autobus. Nel ’77 passai nella stanza dei bottoni dell’Inter, in tre anni promisi lo scudetto: contro la Roma stavamo perdendo, Mentana mi offrì un sigaro come portafortuna, rimontammo e vincemmo il campionato del ‘79-‘80, con mister Eugenio Bersellini, così mi è rimasto il vizio”.
Suo padre Valentino era simbolo del Grande Torino, scomparso a Superga il 4 maggio del 1949, quando aveva 7 anni.
“Ho ritrovato una lettera a un suo tifoso di Palermo: “Sento che un giorno il mio Sandrino farà strada nel calcio – scrisse -, lo vedo da come calcia il pallone. Quando giocavo fra i ragazzi sentivo tutti i commenti: “Quello non è bravo come il papà, il papà è un’altra cosa”.
Che ruolo ebbe Benito “Veleno” Lorenzi, nel suo approdo sul campo?
“In Nazionale era convocato ma non giocava quasi mai. Da buon toscanaccio, era preso in giro dagli altri giocatori. Un giorno mio padre disse al ct Vittorio Pozzo: “Prova sto’ ragazzo”. Gli dava ascolto come fosse un oracolo, lo impiegò e allora successivamente volle ricambiare. Venne a Cassano d’Adda a trovare mio fratello Ferruccio, minore di 3 anni, e me, portandoci a fare le mascotte dell’Inter”.
Il suo primo allenatore fu Giovanni Ferrari, 8 scudetti, di 5 però con la Juve...
“Era responsabile del settore giovanile dell’Inter. Ci approdai a 12 anni, solo a 14 si poteva firmare il cartellino e allora mi seguì personalmente. Poi mi convocò nella Nazionale juniores, successivamente fu responsabile del corso per allenatori e all’esame mi tenne sotto più di tutti, per evitare favoritismi verso chi conosceva tanto bene”.
Ecco, perchè non fece il tecnico?
“Forse sono stato un pirla... Peraltro anche da calciatore mi piaceva andare a vedere come lavoravano le società, l’Inter era in un momento molto difficile, mi sembrava giusto restituire qualcosa rispetto al tanto avuto. Da dirigente rifeci il settore giovanile, preparai corsi per tecnici e persino per i genitori”.
Ovvero?
“Spesso papà e mamma di un aspirante giocatore non sapevano come comportarsi. Qualcuno da oltre la rete incitava a dare una botta all’avversario, oppure non sapeva cosa fargli mangiare prima di una partita”.
A proposito, lei conobbe la fame?
“A Cassano, a pranzo si mangiava il coniglio con il risotto giallo, allo zafferano, la sera gli avanzi del mezzogiorno. A Milano mamma Emilia andava dal macellaio, segnava il conto e si pagava a fine mese: quando non poteva saldare, mandava me o Ferruccio, perchè non si potevano obbligare i bambini a pagare, nè lasciarli senza mangiare. E a Porta Ticinese da ragazzini ogni tanto rubavamo le sigarette ai contrabbandieri, per rivenderle racimolando qualche lira”.
Da ragazzino si diede pure al basket?
“Un giorno affrontai con la mia squadra il Simmenthal di Riminucci: ero in palleggio, vidi due gambe larghe e feci il tunnel; mi presero assieme a Giandomenico Ongaro, poi pivot importante. Mi allenavo alla Forza e Coraggio con il Simmenthal e i giovani dell’Inter. Un giorno giocavo in cortile, con i tappini della coca-cola, Ferruccio mi disse: “Noi Mazzola non possiamo giocare con le mani, usiamo piedi”. Andò lui a spiegarlo al Simmenthal”.
La sua prima volta allo stadio Filadelfia, del grande Torino di suo padre, fu con Peppino Meazza in panchina.
“C’era stato appunto per fare la mascotte, vestito con scarpine e maglietta del Toro, a seguire allenamenti e partite. Andai con l’Inter giovanile, rimasi male perchè del Toro venne a salutarmi solo Zoso, il vecchio magazziniere, mi portò giù nello spogliatoio, aveva messo il mio nome nell’armadietto che era stato di papà. Sul campo non vidi palla, era troppo dura lasciare alle spalle ogni ricordo. Mister Meazza mi diede una pacca sulla spalla e in milanese disse che quella partita non contava”.
Esordì in A contro la Juve, nel 1961: il petroliere Angelo Moratti era in polemica con Umberto Agnelli, presidente della Figc e dunque in conflitto di interessi, perciò a Torino fece schierare la squadra Primavera.
“Era fine campionato, vinsero i bianconeri 9-1. Segnai un gol su rigore, la mattina ero stato a scuola e una vettura dell'Inter venne a prendermi, mamma Emilia non era così contenta della mia scelta. Sivori non voleva giocare, eppure realizzò 6 reti, il record”.
L’anno dopo era già titolare, il vero debutto fu a Palermo, con l’assist dell’1-1. Helenio Herrera da centrocampista la trasformò in attaccante a tutto campo, da contropiede. “Nel ’63 il primo derby, segnai dopo 13”. Nella finale di Vienna ‘64 avevamo contro il Real di Puskas, con il quale scambiai la “camiseta” e Di Stefano, il mio giocatore preferito: realizzai il primo gol con un tiro da fuori e il terzo sfruttando un errore di Santamaria. Con 7 gol, fui capocannoniere di quella edizione, a 21 anni. Neanche Messi era arrivato a tanto, a quell’età. Vincemmo tre scudetti in 4 anni, due coppe dei Campioni e due Intercontinentali”.
Grazie alla difesa con Armando Picchi libero e Tarcisio Burgnich in marcatura, mentre Giacinto Facchetti inventò il ruolo di fluidificante.
“Suarez era il regista, Mariolino Corso inventava. Negli spogliatoi all’epoca si fumava, il Mago allenava la testa, solo Mourinho poi l’ha emulato. In squadra avrei voluto anche Gigi Riva, sarebbe stato fantastico, ma volle restare come bandiera del Cagliari”.
Uno delle reti più belle fu a Budapest, nella coppa dei Campioni del ’67.
"Superai avversari come birilli, poi invece di calciare in diagonale tornai indietro dribblandone altri. Suarez mi diede del pazzo, eppure l’Uefa considera quel gol in assoluto il più spettacolare della competizione”.
Quell’anno però vinse il Celtic Glasgow, 2-1 nella finale di Lisbona.
“Al 3’ segnai su rigore, avevamo una difesa di ferro eppure nel secondo tempo ce ne fecero due, non ho mai trovato spiegazioni a quel crollo e sogno tiri in sequenza contro la porta scozzese. A Mantova in quei giorni perdemmo scudetto, poi la Coppa Italia, si chiuse un ciclo”.
Herrera andò alla Roma l’anno successivo e nel ’71 Mazzola conquistò l’ultimo tricolore all’Inter, con il subentro in panchina di Giovanni Invernizzi, scomparso nel 2005.
“Arrivai secondo nel Pallone d’Oro, dietro all’olandese Cruyff, mi resta il rammarico di non averlo vinto: Herrera mi aveva impiegato nella sua posizione, ma in anticipo di un decennio. L’anno seguente perdemmo 2-0 la finale di coppa Campioni proprio con il suo Ajax”.
Si ritirò a 35 anni, dicendo no alla Juve.
“Per la terza volta. Arrivò la telefonata di Boniperti, un vecchio consigliere dell’Inter, Renato Ramella, mi conosceva fin da bambino: a casa sua stappò una bottiglia di Don Perignon per celebrare il mio passaggio a Torino, il presidente Ivanoe Fraizzoli invece frenò, chiamandomi in società, così non cambiai bandiera”.
In Nazionale esordì nel ’63, segnando un rigore al Brasile di Pelè, controllato da Trapattoni. Tre anni dopo la caporetto del calcio italiano, in Inghilterra con la Corea del Nord.
"Eravamo molto giovani, subentrò la paura. Battemmo il Cile, pensavamo di essere qualificati. Valcareggi era stato mandato dal ct Edmondo Fabbri a seguire i coreani, dopo la prima gara ci disse che erano scarsissimi, nella successiva che sembravano fenonemi. Restammo in 10 dopo pochi minuti, si fece male il povero Giacomo Bulgarelli, gli asiatici correvano tanto ma sbagliammo 3-4 gol. Nel turno successivo a fine primo tempo erano in vantaggio 3-0, poi ne presero 5, da Eusebio e compagni”.
Possibile che Fabbri sia il miglior allenatore della sua carriera, dopo mago Herrera? “All’epoca in azzurro giocavano tanti oriundi, il ct limitò le convocazioni ai soli figli di italiani emigrati, diede all’Italia forza e mentalità, allora era poco considerata. Sul podio metto lo stesso Uccio Valcareggi perchè aveva l’intelligenza di ascoltare i giocatori”.
Nel ’68 si rifece con il titolo europeo, a Roma, contro la Jugoslavia.
“Nella prima finale ero in panchina, finì 1-1, con il pari di Domenghini. Giocai nel 2-0 della seconda, il ct Ferruccio Valcareggi mi schierò interno. Un giornale tedesco scrisse che sembravo un imperatore romano al comando delle truppe, in mezzo al campo”.
Cominciò lì la leggenda della staffetta con Gianni Rivera.
“Ogni tanto ne parliamo e ancora ci stupiamo. L’Italia è il paese di Coppi e Bartali, oltrechè di Machiavelli, fu un compromesso per non decidere. Di Gianni ricordo il modo di dare la palla, qualche volta ha fatto segnare anche me. Non eravamo poi così divisi, assieme fondammo il sindacato dei calciatori”.
In Messico all'inizio giocava, poi subentrò a Rivera. Nella semifinale con la Germania accadde il contrario.
“Ero uscito che era eravamo in vantaggio. Con il Brasile giocammo un'ora alla pari. Dopo quel Mondiale, avevo la critica puntata contro, Gianni si fece male alla vigilia dell’amichevole in Svizzera, a Berna andai in campo e segnai il gol dell’1-1 dopo sei palleggi al limite dell'area e mi ripresi la maglia”.
In Germania ’74 fece l’ala destra.
“Fummo eliminati 2-1 dalla Polonia, gol di Capello, eppure i giornalisti europei mi collocarono nella squadra ideale della manifestazione. Il ct Fulvio Bernardini avviò poi il rinnovamento e a 32 anni fu il mio addio all’azzurro”.
Una delle prime mosse da dirigente interista fu bloccare Michel Platini, nel ’79. “Sembrava che aprissero le frontiere, andavamo in giro a seguire magari non i più grandi. In Germania me lo segnalò un giornalista, come talento del Nancy, all’epoca il calcio francese non era molto considerato: mi appuntai il nome, mandai a vederlo uno degli allenatori del settore giovanile, Mario Mereghetti, per evitare di dare nell’occhio pagò il biglietto allo stadio e pure l’aereo. “Questo qui è un giocatore”, mi relazionò in milanese”. Chiamò casa Platini e le risposero i genitori. “Il padre era un mio tifoso, all’epoca non c’erano i procuratori, firmammo un triennale, con l’idea di mandarlo in prestito, fece pure le visite. Venne a giocare a Napoli in amichevole con la Francia, segnò un gran gol, mister Bersellini era contento perchè gli compravamo un campione, al presidente Fraizzoli non piaceva per le gambe a x e i piedi piatti, gli dissero che era rotto e lasciammo perdere. Così Michel andò alla Juve e tuttora ci ride sopra ma resta grato per il mio interesse: al Mondiale in Sudafrica mi ha ceduto il suo posto in prima fila, in tribuna”.
Alla voce colpi saltati, anche Falcao.
“In un Roma-Inter venne a salutarmi nel tunnel. Fece un gol favoloso, scese davanti allo spogliatoio di nuovo a omaggiarmi, prima che andassi a prendere l’aereo. Andai in coppa a Madrid, avevo capito che voleva venire a Milano, ma avevamo un bilancio molto rigoroso, potevamo permetterci un solo campione, volevo portare anche Bruno Giordano, ma avendo Altobelli, come centravanti, era più utile lui”.
E per contattarlo si spacciò per un giornalista...
“Al telefono in ritiro mi presentai come Nino Petrone, del Corriere d’Informazione, non potevo dire la verità. Mi confermò la volontà di venire all’Inter: “Siete la squadra del futuro”. Mi rimandò al procuratore, Cristoforo Colombo dos Reis Muller, che gli aveva fatto da padre. Firmammo il contratto mentre Giussy Farina divenne presidente del Milan, la moglie del presidente Fraizzoli venne citofonarmi a casa per avere la conferma, il marito allora avviso il presidente giallorosso Dino Viola, che lamentò la mia intrusione e poi gli rinnovò il contratto”. Nell’86 divenne dirigente del Genoa.
“C’era Tarcisio Burgnich allenatore, me lo trovai lì, senza sceglierlo. Non potevo licenziare un mio ex compagno, convinsi il presidente Aldo Spinelli a fargli dare le dimissioni, liquidandogli peraltro ogni spettanza. Subentrò Attilio Perotti, io avevo contattato Eugenio Fascetti, per la stagione successiva: alla Lazio aveva fatto bene, sarebbe stato perfetto per i tifosi genoani, con il suo essere sanguigno. Andammo a parlargli, ci demmo la mano, passarono 10 giorni ma il presidente non si decideva a firmare: scelse di tenere Perotti e allora a fine stagione lasciai perchè avevo una parola sola”.
Nel ’97 portò all’Inter Ronaldo.
“Faceva numeri mostruosi, come Messi oggi nel Barcellona, ma con forza fisica e allungo superiori”. Fra il 2000 e il 2003 l’unica altra esperienza di club extra Inter. “Al Torino, come direttore generale. Fummo subito promossi in serie A, con Camolese in panchina, dopo una cattiva partenza, poi un campionato da zone alte”. Ora Sandro Mazzola è candidato alla presidenza del Coni lombardo. “Vedo passione e voglia di dare ai giovani la possibilità di giocare. Il 17 è in programma l’elezione, ma forse è rimandata, concorre il presidente uscente Bellodi”.
Oggi come festeggia i 70 anni?
"Nessun viaggio, ne ho fatti tanti come giocatore, dirigente e commentatore Rai. Resto a casa, a Vedano al Lambro, nel Monzese, con la mia tribù capeggiata dalla moglie Graziella, 69 anni, sposata nel ’64”. Avete due figlie (Ilaria, 48 anni, laureata in legge e istruttrice di ginnastica in Brianza; Valentina, 46 anni, impiegata nella carrozzeria del marito, a Milano) e due figli: Sandro, 44 anni, titolare di 3 negozi di abbigliamento, e Paolo, 38 anni, con un negozio in un centro commerciale. “Sandro giocò nel Saronno, ora è allenatore di calcio a 5, a Milano, Paolo fece le giovanili nell’Inter. Ho 7 nipoti, di cui 4 maschi, il maggiore è Alessandro, 18 anni, il più piccolo ne ha 4 e si chiama Valentino... Considerato che rimasi orfano tanto presto, mi sono goduto i familiari. Con me era stato fantastico il patrigno Piero Cangini, rappresentante di macchine da scrivere, scomparso 15 anni fa”.
E’ religioso?
“Sì, anche se non molto praticante. La mia fede parte dall’oratorio della basilica di San Lorenzo alle colonne, a Porta Ticinese, arrivando a San Giovanni Rotondo. Eravamo in ritiro, per affrontare il Foggia, andò da padre Pio con Armando Picchi, il giorno dopo tutti, in delegalazione, per volontà di Herrera”.
E il Milan per lei cos’è?
“Sempre la squadra da battere, come insegnavano Lorenzi e Meazza. Almeno per essere i primi della ringhiera, guardando dai balconi di casa”.
Vanni Zagnoli